Drammatico

THY WOMB

Titolo OriginaleSinapupunan
NazioneFilippine
Anno Produzione2012
Durata100'

TRAMA

Shaleha Sarail vive a Sitangkai, un villaggio sull’acqua nell’isola di Tawi-Tawi. Questa provincia, situata nella parte più meridionale delle Filippine verso gli arcipelaghi malese e indonesiano, è dedita alla produzione di alghe marine._x000D_
Shaleha, una donna ormai matura e al terzo aborto spontaneo, si dispera per l’impossibilità di aver figli. Nonostante sia madre adottiva di un nipote, sente che il marito Bangas ha ancora il desiderio di diventare padre. Per appagare il sogno del marito ed essere benedetta da Allah, poiché un figlio è un segno tangibile della grazia divina, la donna decide di intraprendere un’altra strada: troverà una nuova moglie per Bangas. Giorno e notte i due coniugi si spostano in barca tra le isole, le comunità vicine e i villaggi sull’acqua alla ricerca di una donna fertile. Infine, su segnalazione di alcuni amici, trovano la fanciulla giusta. Ma alla vigilia delle seconde nozze del marito con Mersila, Shaleha è rosa dalla gelosia.

RECENSIONI


Brillante Mendoza è capace, come pochi, di oscillare senza complessi dall’ostentazione all’allusione e al non detto, dalla captazione diretta dell’orrore all’elezione del fuori campo a luogo privilegiato del (fare) senso. La macchina da presa, nella sua massima mobilità, sembra non tanto “frugare” la realtà, e ancor meno pedinare i suoi personaggi in risposta ad un generico bisogno di aderenza al vero. Piuttosto, essa pare “subire“ gli effetti del movimento di corpi nello spazio diegetico, come sobbalzata e travolta dall’onda lunga prodotta dall’agire umano (o bestiale, come nell’incredibile sequenza della caduta in acqua dell’animale “morituro”). Thy Womb non sfugge a questa logica. Nel racconto di un sacrificio, quello della moglie di un musulmano che vorrebbe essere padre, Mendoza elegge pochi fatti narrativi a eventi dinamici del racconto, glissa su passaggi che si vorrebbero cruciali, temporeggia focalizzandosi su personaggi e situazioni che parrebbero marginali, nobilita il superfluo e omette il necessario, fino ad un finale in cui in nodi (e gli snodi) vengono al pettine repentinamente. Servito da interpreti a cui basta uno sguardo per esprimere un abisso di dolore e rassegnazione, il regista colpisce ancora una volta nel segno nell’anno del già notevole Captive (in concorso alla Berlinale), confermandosi straordinario cantore della miseria umana e facendosi ulteriormente perdonare il voyeurismo compiaciuto degli esordi.