Drammatico

THREE TIMES

Titolo OriginaleZui hao de shi guang
NazioneFrancia/Taiwan
Anno Produzione2005
Durata120'
Scenografia

TRAMA

Tre storie ambientate in tre epoche diverse e dedicate rispettivamente al tempo dell’amore, della libertà e della giovinezza.

RECENSIONI


Tre amori in tre tempi: gli anni ’60 ed il racconto venato di nostalgia della nascita di un amore in A Time for Love; gli anni ’10, con i riti e le gabbie dorate che soffocano gli impulsi ed il desiderio di fuga di una splendida concubina, che si strugge per un attivista politico dalla lunga chioma in A Time for Freedom(libertà anche dal giogo nipponico); il mondo d’oggi, una ragazza divisa tra un lui ed una lei in A Time for Youth. Scelte stilistiche e cromatiche differenti dietro le quali sembra soggiacere un evidente intento espressionistico - si va dal naturalismo “neutro” del primo episodio alle tonalità calde (quasi “soffocanti”) del secondo, fino a quelle fredde (quasi “gelide”) del terzo.
Tre frammenti di un discorso amoroso transtorico ed iterante, il nuovo capolavoro di Hou Hsiao-hsien si apre su un tavolo da biliardo con la più erotica e coreografica partita della storia del cinema: gessetti passati sulla punta delle stecche, palline rotolanti, sguardi che si intrecciano, movimenti che suggeriscono gli atti di una seduzione in divenire. La radio, si presume visto che la fonte sonora rimane costantemente fuori campo, diffonde due sole melodie “lacrimose” incentrate sul pianto, sulla sofferenza d’amore: Rain and Tears degli Aphrodite’s Child e Smoke Gets in your Eyes dei Platters. La transitorietà dei rapporti segnati dal caso è resa mediante l’andirivieni del battello. E sotto una pioggia battente, quasi una “meteoprefigurazione” delle lacrime che saranno versate per un gioco che va necessariamente giocato (pena la non vita, la non comunicazione intima), il contatto di due solitudini, riparate sotto un ombrello. Dopo una lunga ricerca fatta di sussurri e di attese ora vane ora proficue, tra una sala da gioco e l’altra, il giovane protagonista riesce a conquistare l’oggetto d’amore.
Nel secondo frammento, abile e non lezioso omaggio alla cinematografia del periodo muto (con tanto di intertitoli), paradossalmente l’episodio meno “silenzioso” del trittico (fu Bresson a dire per primo che il cinema sonoro ha inventato il silenzio), accompagnato da melodie al pianoforte “in stile” e, soprattutto, da un canto d’amore “funebre” e tristissimo che pare mutuato da Mizoguchi, la liaison viene suggerita ancora attraverso l’iterazione di gesti surroganti un’impossibile congiunzione sessuale: al posto del gioco del biliardo, la condivisione ripetuta a cadenze settimanali di un tè, il rituale dolce e straziante dello scioglimento e della cura dei capelli dell’altro. Soverchiata dal folle potere e dalle istanze dell’etichetta, la protagonista non riesce a dichiarare il suo amore, così come il giovane attivista non sembra comprendere le reali aspirazioni e desideri della concubina. A quest’ultima non resta che sublimare la passione nel gesto materno della liberazione di una giovane allieva, data in sposa ad un riccone del luogo. Sul finire, la donna ode provenire dalla stanza a fianco il canto di una bimba dal destino già segnato, si appoggia alla porta scorrevole, guarda nel vuoto, una lacrima le riga il volto: è l’incombente ricambio generazionale, il vago sentore del sopraggiungere della fine, la tragica consapevolezza di non aver vissuto, se non da prigioniera, e di non poter cedere in eredità nient’altro che la propria dannazione.
E’ il dolore transtorico e transitorio a congiungere il secondo e l’ultimo episodio: da quello rappreso e paralizzante della concubina per un amore non vissuto al pianto dirotto ed alle mani intrecciate della rock star protagonista del terzo capitolo, strette al ventre dell’amante fotografo - è una sofferenza, questa volta, causata dal “troppo amore”, un amore “pansessuale”, per un uomo, per una donna. In questo caso è una fuga in moto appena abbozzata ad essere ripetuta, segno referente dell’inanità di ogni allontanamento deliberato.
Se il Tempo dell’amore è quello delle canzoni udite, associate indelebilmente ad un volto, ad una situazione, ad un’emozione, se l’antifrasticotempo della libertà è quello delle “canzoni” che siamo costretti a cantare nascondendo il dolore dietro una maschera sorridente, il tempo della giovinezza è forse l’unico “produttivo”, quello della trascrizione in versi o melodie (la cantante) e della mummificazione (il fotografo) di uno stato mentale, di un’angoscia, di occhi stanchi o vivi incrociati per strada e di corpi carezzati che si è cercato di amare: del tentativo di conferire senso e di razionalizzare il tempo ed i tempi.
Sulle invasioni di campo del passato prossimo e remoto e sull’impossibilità oramai connaturata alla società contemporanea di sottrarre al dominio pubblico uno spazio intimo inviolabile, Hou Hsiao-hsien forma un trittico sublime, di cristallini rigore e purezza, di un’eleganza e di una ricercatezza uniche e mai stucchevoli, riflessione sul rapporto tra temporalità lineare ed intermittenze del cuore, tra tempo come esperienza soggettiva e come categoria (tema costante nella cinematografia dell’autore taiwanese), coadiuvato dagli splendidi attori protagonisti, la “coppia fissa” dei tre episodi Shu Qi (la stessa di Millennium Mambo) e Chang Chen.