TRAMA
La tredicenne Tracy riesce a diventare l’amica del cuore della coetanea Evie, la più popolare della scuola: insieme combinano ogni genere di casino, finché…
RECENSIONI
Sebbene schiere - non poi così fitte - di sfiancanti maître à penser abbiano tentato di (ab)usare (di) THIRTEEN nelle loro improvvisate analisi psico-socio-pedagogiche, il film della Hardwicke (premio per la regia al Sundance 2003) esplora non una moda più o meno general(izzabil)e, ma l’enigmatico rapporto fra due ragazze opposte solo a livello epidermico. Tracy è bionda, altruista, riservata, coscienziosa, Evie è mora, egocentrica, estroversa, distaccata da tutto/tutti: a unirle sono ferite fisiche e mentali, desideri ineffabili, un amore fatto di odio ed emulazione [più che nella scena dei baci saffici - esplicita eco del patinato e profetico (cfr. sotto) cult CRUEL INTENTIONS - la tensione emerge nel successivo appuntamento a quattro, in cui le due amoreggiano con i rispettivi partner e insieme si tengono d’occhio, studiano le reciproche mosse, si corteggiano a distanza]. Il film non è la cronaca di una degradazione, di un’amicizia sbagliata(/sballata) nel corso della quale Tracy – Faust, che aspira a una prematura (e quindi innaturale) maturità, cede alle lusinghe della demoniaca Evie (con quel nome, del resto…) per poi riscattarsi fra le braccia di mamma: se Evie è una buona maestra nell’arte della trasgressione adolescenziale, Tracy è un’ottima allieva, pronta a rubare autonomamente pur di farsi accettare dal suo idolo, (aprioristicamente) incazzata con il mondo (madre in testa), arsa da un’ansia di trasformazione che è disperato tentativo di fuga (rinnegato, nel finale, in nome della semplice illusione di una serenità tutta da ri/costruire, una giostra di sognata precarietà). La relazione fra le giovani è pericolosa in un’accezione degna di Laclos: un rapporto alla pari in cui anche il carnefice soffre (il pianto di Evie) e la vittima si ritaglia oasi d’insanguinato autocompiacimento; un legame feroce che neppure la lontananza (forse) potrà spezzare. Alla regista (giustamente) interessa non indagare cause o attribuire torti e ragioni, ma fotografare istanti di quotidiana ebbrezza: incessantemente immersa nel flusso degli eventi, la fremente macchina da presa regala convincenti piani sequenza (la mancata orgia a tre) in una messinscena che fonde vezzi da spot, crudezze (simil)documentarie (le sgranature notturne), idee graffianti (il poster pubblicitario con lo slogan keatsiano beauty is truth), invenzioni che superano il mero décor (il bianco e nero macchiato di colore che sottolinea il grottesco tono mélo del finale). I dialoghi sono pedanti e non manca qualche soluzione banale (lo sballo di Tracy, virato in diverse tonalità - un po’ alla TRAFFIC -, un flashback non necessario), ma l’occhio della regista è non di rado terribilmente acuto. Si segnala, oltre alla mesta genitrice Holly Hunter, una devastata Deborah Unger.