TRAMA
Clémentine, insegnante di francese in Romania, e Lucas, scrittore in cerca d’ispirazione, sono una giovane coppia che ha giusto il tempo di godersi la giornata spensieratamente nella casa in campagna in cui vivono, nella periferia di Bucarest, prima che scenda la notte e gli faccia vivere un terrificante incubo a occhi aperti.
RECENSIONI
Dopo essersi distinto all’ultimo Ravenna Nightmare Film Festival giunge dalla Francia con prevedibile ritardo anche nelle nostre sale questo distillato di ritmo e tensione in forma cinematografica firmato David Moreau e Xavier Palud. Oltre a concedere una pur tangibile impressione di aver svolto il classico “bravo compito”, talmente ben fatto che gireranno negli States il remake dello stesso Ils e quello di The Eye (a dispetto dei Pang), gli autori offrono con spiazzante serietà un riuscito tentativo di scarnificazione del codice thrilling disossandolo nelle sue componenti più semanticamente ludiche (il coinvolgimento narratologicamente calcolato dello spettatore, l’interminabile gioco delle attese, etc.) eliminando orpelli diegetici e puntelli metacinematografici per pervenire a un nucleo linguistico di raffinata nudità espressiva. È l’estrema secchezza della messa in scena, prosciugata di tutta quell’estetica della dispersione e del depistaggio che da Hitchcock in poi ha contribuito a disegnare e definire la retorica del genere, che con ruvida fluidità detta l’incalzante passo della rappresentazione, alla quale implacabilmente nulla sembra voler sfuggire. La regia del duo francese fa leva principalmente su elementi di minimale rilevanza per convergere nell’edificazione di un costrutto narrativo deossigenato dai continui movimenti di macchina pronti a cogliere fenomenologicamente l’accadere. Gli archetipi di un “lui”, una “lei”, un “altro” invisibile, la casa come inquietante poliedro occlusivo e il bosco circostante come luogo di una possibilità d’esodo fanno ancora una volta il film, il segreto risiede sempre nella disposizione. Non c’è ovviamente nulla di nuovo sotto il sole, nemmeno nelle funzionalmente livide atmosfere delle aree geografiche della periferia di Bucarest, solo la ricostituzione di un dispositivo di rappresentazione che nel caso di Them insegue traiettorie improntate a una certa flagranza del mostrare, calate nel realismo dell’unità di tempo e di luogo della mise en scène: tutto avviene in uno spazio univoco e perimetrato dentro una temporalità quantificabilmente condivisa in cui il tempo dell’enunciato coincide quasi perfettamente con il tempo dell’enunciazione. In quello che diviene progressivamente un cinema di impercettibili motilità, bruschi sommovimenti, di colori, suoni, voci, rumori e tutto un dedalo di sensazioni varie la cui portata percettiva è modulabile in funzione del registro scelto, amplificata dalla rapidità di montaggio o ridotta dall’ovattata lentezza delle inquadrature in piano-sequenza, l’irruzione dell’indefinibilità angosciante dell’altro nella vita dei personaggi plasma letteralmente la percezione dello spazio abitabile e esperibile come quello del domicilio e del giardino che mutano la loro familiarità in pericolosità e minacciosa incertezza del dentro e del fuori, allungandone a dismisura la labirintica percorribilità entro la quale viene delimitata con cartesiana esattezza l’inevadibilità di un orrore circoscritto. Lo svelamento finale, epifania comunque agghiacciante, seppur pertinente alle iniziali intenzioni di veridicità del racconto (le vicende tratte da “una storia vera” come suggellano cartelli di testa e di coda), oltre a ricollegare il film per analogia a pellicole come Ma come si può uccidere un bambino? di Serrador o Devil Times Five di MacGregor e Sheldon, rischia di trasformare retroattivamente il significato di ciò che ha generato la paura sentita (naturalmente non l’emozione, ma la sua concettualizzazione) in qualcosa di psico-sociologicamente più spiegabile come la natura perversa e polimorfa di quel non più innominabile altro.
