Drammatico, Recensione

THE WOMAN WHO LEFT

Titolo OriginaleAng babaeng humayo
NazioneFilippine
Anno Produzione2016
Durata226'
Sceneggiatura
Liberamente trattodal racconto di Dio vede la verità ma non la rivela subito di Lev Tolstoj
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Per Horacia la vita è diventata una prigionia, piena di colpi di scena e imprevisti problematici, crudeli e inspiegabili. Siamo nel 1997. Le Filippine, diventate la capitale asiatica dei rapimenti, sono nella morsa della paura.

RECENSIONI

Si parte, come spesso nel cinema di Lav Diaz, dalla letteratura russa, in questo caso da un breve racconto di Lev Tolstoj, Dio vede la verità, che il regista filippino dichiara di aver letto molto tempo fa e di averne un ricordo ormai molto annebbiato. Diaz traspone il protagonista, il mercante Aksionov, in una maestra, Horencia. E, mentre nel testo originale il personaggio muore proprio quando viene riabilitato non potendo così godere della libertà riacquisita, l’eroina di Lav Diaz esce dal carcere per compiere la sua vendetta. La novella rappresenta così solo l’incipit di The Woman Who Left, da cui poi parte una storia inedita. Naturalmente nella vicenda di una donna riconosciuta innocente, dopo aver scontato trent’anni di carcere, per la confessione della vera colpevole, tornano anche tutti i temi dostoevskijani, o langhiani se rimaniamo nella storia del cinema, cari al cineasta filippino, i temi del bene e del male, del delitto senza castigo e del castigo senza delitto. Già il primo film del regista, The Criminal of Barrio Concepcion, che risale proprio all’epoca in cui è ambientato The Woman Who Left, nel mezzo di quell’ondata di violenza e di sequestri di persona che stava sconvolgendo l’arcipelago, è protagonista un criminale impunito, Serafin Geronimo, artefice di numerosi rapimenti. In Norte, the End of History Fabian uccide l’usuraia Magda, ma per questo crimine viene accusato ingiustamente e messo in carcere Joaquin. E in Death in the Land of Encantos il poeta Benjamin Agusan espone a un’amica un suo lungo racconto su una persona condannata ingiustamente, ispirato a una vicenda realmente accaduta e da lui definito un apologo morale di stampo dostoevskijano.
Come già successo nella filmografia di Lav Diaz, The Woman Who Left parte da un momento storico ben preciso, il 1997 e l'handover di Hong Kong che da colonia britannica torna a essere sotto la sovranità cinese. Un evento che è epicentro di scosse sociali nello scacchiere del Sudest asiatico, provocando l'esodo della comunità sino-filippina, dai tempi di Marcos oggetto di persecuzioni e violenze. Ma un evento che è anche metafora dei continui passaggi, da una dominazione all’altra, nella storia delle Filippine. E una data che combacia anche con il ritorno di Lav Diaz in patria e con la realizzazione del suo primo film, quindi un momento primigenio per il regista il cui cinema è una reinvenzione continua della settima arte. Così nel film precedente A Lullaby to the Sorrowful Mystery il parallelismo è tra l'esecuzione del patriota José Rizal, motore del cinema stesso di Lav Diaz, da parte dell'autorità coloniale spagnola - evento propulsore per l'indipendenza del paese - e la prima scintilla della settima arte, il filmato dei Lumiere ma ricostruito e rielaborato dallo stesso Diaz. Come tutti i film del filmmaker filippino, The Woman Who Left è un macrotesto che contiene il suo stesso cinema fino a oggi - vedi per esempio il riferimento al sindaco di nome Tiburcio, come il padre Tiburcio di Century of Birthing  - ma anche la storia stessa del cinema filippino. Il personaggio del travestito Hollanda, la comunità di prostitute trans, di schiavi sessuali, rappresentano un mondo che sembra ripreso dal cinema di Lino Brocka, o da Manila by Night di Ishmael Bernal; la religiosità diffusa (le icone di Cristo) e il mendicante che crede nei miracoli ci riportano invece al seminale, per la cinematografia filippina, Himala sempre di Bernal. Ma, ancora come sempre nei film di Lav Diaz, il cinema diventa il luogo della sintesi delle varie arti, il contenitore dove avviene la trasmutazione da una forma artistica all’altra, la messa in scena dei passaggi di stato. La letteratura degli echi tolstojani e dostoevskijani che risuonano da un film all'altro; la letteratura che si incarna nel romanzo The Power of Black, letto da Horencia all’inizio e alla fine del film conferendovi così anche una struttura circolare. Si tratta di un'opera letteraria dello stesso Lav Diaz - incompiuta proprio come il romanzo Makamisa di José Rizal - che inizialmente aveva concepito come testo di teorie del cinema, singolarmente convertito in narrativa in corso d'opera. Torniamo così a Melancholia dove lo scrittore protagonista racconta la sinossi del suo romanzo, che ha per protagonista un regista che vuole fare un documentario sulla storia del cinema filippino. La letteratura che si fa racconto orale filmato e in The Woman Who Left torna tutta una serie di letture, la confessione letta con lo sfondo di due quadri interni, un quadro astratto e una finestra, l'enunciazione dei propri diritti; ma anche la voce off della radio sulle scene del film.

Come in altri film, soprattutto nella prima parte di Melancholia, molti personaggi di The Woman Who Left non sono quello che dovrebbero essere, si sdoppiano in molteplici identità, assumono e interpretano vari ruoli. Horacia avrà vari aspetti nel corso del film, Rodrigo ammetterà di essere un travestimento, Hollanda si manifesta in un sesso che non è il suo. Lo stesso Lav Diaz, all’anagrafe Lavrente Indigo Diaz, abbrevia il suo nome come nome d’arte e usa, o ha usato, uno pseudonimo, quello di Taga Timong per firmare articoli e commenti sui giornali. Gli stessi nomi dei personaggi possono contenere antinomie, come quello del villain Rodrigo Trinidad, laddove il nome proprio, che ci piacerebbe di manzoniana memoria, sembra richiamare quello dell’attuale, odioso, presidente filippino. Lo sdoppiamento, il doppiogiochismo sono anche gli elementi della finzione e dell’arte cinematografica, che in The Woman Who Left si incarnano anche nella messa in scena, come un teatro, dei transessuali davanti a un falò, o all’esibizione canora del duetto di Horacia e Hollanda di Sunrise Sunset (dal musical Il violinista sul tetto), e West Side Story. Ancora lo spettacolo, l’arte inscritta in un’altra arte. E lo sdoppiamento finale è anche quello del ruolo di omicida, come in un transfert hitchcockiano in stile L’altro uomo. Non solo i personaggi non sono quello che sembrano, ma anche le immagini. Diaz gioca sulla loro ambiguità, come ha sempre fatto nel suo cinema. Immagini che assumono il proprio significato al dipanarsi della storia. Le lavoratrici nei campi e i soldati con mitra: scopriamo solo in un secondo momento che si tratta di detenute ai lavori forzati. Tutto fa pensare che Horacia sia in cerca del figlio ma si scopre che, al momento, sta inseguendo la vendetta. Horacia che sbuca fuori con una pistola, ma ancora si realizzarà che la situazione è legata con la sua vendetta.
In The Woman Who Left tornano tanti temi cari al regista. Quello della malattia, che colpisce Hollanda, che assume su di sé il male di un paese martoriato in quel momento. Un martirio che si estende al mondo intero, sconvolto in quel nefasto 1997 da un’ondata di omicidi e lutti di figure popolari, Gianni Versace, Lady Diana, Madre Teresa di Calcutta. Quello dell’escavazione nel sottosuolo marcio del paese, accennata al riferimento alla miniera, riferimento anche a Butterflies Have No Memories. Tutto, in The Woman Who Left, confluisce nella narrazione e nella narratologia, in un film che inizia e finisce con un “c’era una volta”.