Biografico, Commedia, Focus, Recensione

THE WOLF OF WALL STREET

Titolo OriginaleThe Wolf of Wall Street
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata180'
Sceneggiatura
Tratto dadall'autobiografia di Jordan Belfort
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio) di giorno riesce a guadagnare migliaia di dollari che con la stessa velocità sperpera in droga, sesso e viaggi intorno al mondo.

RECENSIONI

In The Pervert’s Guide to Ideology, uno scombiccherato Zizek spiega perché M*A*S*H, secondo lui, non è il film antimilitarista che tutti vanno dicendo. Per il filosofo, il fatto che i protagonisti del film di Altman siano dei burloni, prendano in giro le autorità, facciano scherzi goliardici e prendano tutto poco sul serio non mina la loro efficienza di soldati. Anzi, sono degli ottimi soldati proprio per quella ragione. L’oscenità e il distacco ironico sono parti essenziali, per Zizek, del funzionamento della macchina militare. Questa tesi sarebbe dimostrata anche da Full Metal Jacket di Kubrick: i canti osceni dei Marines, il linguaggio scurrile, l’umiliazione volgare non sono parentesi ludiche dell’addestramento militare, ma sue parti essenziali. Tant’è vero che è proprio il soldato Joker - il più distaccato e contradditorio, quello che ha “Born to Kill” e il simbolo della pace dipinti assieme sull’elmetto – a dimostrarsi il killer più preciso. Insomma, l’osceno è un elemento essenziale di un obbediente e efficiente servizio all’establishment.

The Wolf of Wall Street sembra prendere quest’idea alla lettera e prova a raccontare il capitalismo finanziario dedicandosi interamente al suo cuore osceno. Ci dice subito uno straordinario Leonardo Di Caprio “You wanna know what money sounds like? ‘Fuck this, shit that, cunt, cock, asshole’.” Il suono del denaro è fatto di parolacce, di oscenità. È difficilissimo rappresentare i soldi al cinema. Scorsese e Terence Winter (sceneggiatore e executive producer di svariati episodi di Boardwalk Empire e dei Soprano) scelgono di tralasciare quasi tutto di borsa e mercati: non vediamo gli investitori, non vediamo contratti o titoli azionari, non vediamo gli stabilimenti o gli uffici delle società comprate e vendute dai dipendenti di Jordan Belfort. Non vediamo, a pensarci bene, né operai né dirigenti, né produttori né consumatori. Non vediamo i politici, non vediamo i contestatori. Non vediamo un bel nulla, solo puttane e cocaina. Che cosa producono le aziende che finiscono sugli schermi della Stratton Oakmon? Non importa a nessuno – non vediamo mai i loro prodotti. L’unico prodotto industriale che fa il suo ingresso in quella bolgia di godimento osceno su cui regna Jordan Belfort è la scarpa disegnata da Steve Madden, che viene insultato e preso a male parole. Per salvare Madden dal linciaggio, Jordan Belfort entra in scena e racconta ai suoi una storia. Questo è il punto: c’è una storia di successo e godimento, c’è il suo cuore osceno e ci sono i soldi. La catena di montaggio della finanza secondo Scorsese non ha nulla a che vedere con analisi strategiche, fondamentali economici, scelte manageriali, matematica degli investimenti: la catena è elementare: mito – oscenità – soldi. Del resto Matthew McConaughey lo spiega bene all’inizio del film: lo scopo del gioco è mantenere i soldi a un livello virtuale, potenziale, se i clienti li ritirano – se diventano soldi veri – il gioco è finito. È il ricircolo continuo della pulsione, fine a se stesso, ripetitivo, autosufficiente. I soldi devono subito ritrasformarsi in mito – una nuova storia, un nuovo investimento, un nuovo sogno – per svolgere bene la loro funzione.

Dare forma all'impalpabile business della finanza (dematerializzato per sua natura) è arduo; e non può stupire che in una rappresentazione della finanza non ci sia spazio per stabilimenti, prodotti industriali, rapporti economici reali The Wolf of Wall Street però sceglie un metodo radicale e estremo. Non tira fuori una metafora, una storia che riproduca, per esempi o stilizzazioni, quel che non si può mostrare direttamente perché impalpabile. Al contrario, scoperchia direttamente la metafisica della questione: vaffanculo, merda, fica, cazzo, stronzo. Lo spettatore è sempre sott'acqua, diciamo così: sempre sotto la superficie delle cose. Quel che sembra aneddotica futile (le feste, le orge, la coca, il crack, il Qualuude, i nani lanciati contro il bersaglio, lo yacht, le auto sfasciate, i dipendenti umiliati) è in realtà ontologia: questa è la sostanza della faccenda. La storiella biografica è una sciocchezza: ascesa, declino, l'FBI, a qualcuno importa di seguire questa pista? Jordan Belfort ci svela brutalmente il supporto su cui la cosa in sé si regge: l'osceno. Che ciò che vediamo sia una roba metafisica è dimostrato dall'estremismo radicale: sia il rappresentato sia la rappresentazione sono così eccessive e dilatate che non assomigliano per niente a un dipinto dal vero; sono piuttosto il nucleo psichico che anima il sistema. The Wolf of Wall Street spende un tempo espanso e interminabile su due cose: da un lato sballo, scopate, cazzate; dall'altro i lunghissimi sproloqui di Jordan Belfort (date l'Oscar a DiCaprio). Osceno e storie, osceno e mito. L'insistenza del film su questi due moduli è quasi sfiancante: non è un racconto, è una radiografia dell'inconscio.

Questo schema ci regala delle sequenze capolavoro: la serissima riunione in cui si discute di mettere sotto contratto dei nani per usarli per il tiro al bersaglio, quella di Belfort semiparalizzato che striscia fino a casa per impedire a Donnie (date l’Oscar anche a Jonah Hill) di dire l’indicibile al telefono, l’infantile impossibile e incredibile delirio sull’aereo per la Svizzera. Una coerenza ferrea avrebbe richiesto un finale all’altezza di questo rigore analitico: invece del piccolo successo dell’FBI, invece del tradimento sussurrato di Belfort avremmo voluto vedere le facce dei traditi, i fantasmi del fallimento, il ritorno del rimosso. Ci voleva un incubo, un’allucinazione, un mostro sanguinario per chiudere i conti col carnevale assoluto che è durato per quasi tre ore. In verità, non è così. In verità, per tutto il film siamo stati sempre dentro la testa di Jordan Belfort e lui non ha nessuna intenzione di farci vedere le facce dei traditi, i mostri del fallimento. Lui ha intenzione di godere anche in prigione e, appena uscito, di mettersi a vendere l’atto stesso del vendere. Meta-fugazi.

«Le cose appartenevano a chi se le prendeva.
E adesso è tutto finito. E' questa la parte più dura.
Oggi è tutto diverso: non ci si diverte più».
(Goodfellas)

«Tutto è in vendita» nel mondo del miliardario Jordan Belfort, "lupo" o leone declassato di una giungla infestata da truffatori e clienti, prostitute e puttanieri, degenerati vincenti e bravi ragazzi perdenti, tutti ugualmente drogati di quella materia sopra la quale l'America ha finito per fondare la propria geografia e la propria cultura, la propria vocazione e il proprio mito: il dollaro. I soldi, difatti, nell'universo del film degradato a circuito passante per i cardini America, Wall Street, Stratton Oakmont, Inc. e ancora America («Questa è Ellis Island, gente - grida Belfort al suo pubblico - questa qui è la terra delle opportunità. Stratton Oakmont è l'America!»), assicurano la libertà, l'indipendenza, l'invulnerabilità e, last but not least, tanto divertimento; fissano il successo dell'individuo e rendono le persone migliori, poiché si è migliori, in un mondo così carburato, se si possiedono la macchina più cool e la moglie più bella, i figli perfetti e la barca più lunga, accessori accessibili quanto le merci di una televendita.
Il cinema americano ha spesso raccontato l'ossessione della nazione per il successo, l'ambiguità dell'«ambizione disperata come fondamentale virtù americana e insieme come tentazione rovinosa», personificata da figure "mostruose" che ambiscono a niente di meno di tutto ciò che si può avere, ed è difficile trovare una definizione migliore dell'ambizione in America. I modelli sono quei re che infestano i film: la pistola più veloce del West, il più grande giocatore di biliardo d'America, il più grande giocatore di poker del paese, il campione mondiale dei pesi massimi. I migliori. (Michael Wood, L'America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979, p. 77)

1987. Jordan Belfort, «il più grande» dei venditori, è il tipo di americano sveglio che ha seguito le regole e ha realizzato il suo sogno («Ho sempre voluto essere ricco»): nato povero nella terra delle opportunità, sbarca bravo ragazzo a Wall Street e, imparata alla perfezione la prima lezione della vita (droga, prostitute e niente scrupoli portano al successo, ed essendo il successo a senso unico, sono reali non i soldi che il cliente non smette di investire, ma quelli che il broker continua a intascare), si è trasformato in mostro, Wolfie, ed è diventato il «padrone dell'universo». È diventato cioè uno di loro: dei primi, dei vincenti, dei "cattivi", dei «killer». Secondo quello che Michael Wood ha chiamato il mito dei bravi ragazzi che arrivano ultimi [1], in America «se non sei un killer non puoi vincere» (p. 77). Broker o gangster, giocatore o pistolero, molti dei personaggi scorsesiani hanno arraffato velocemente, senza «fare la fila» come la «brava gente», ciò che desideravano e che il sogno americano aveva promesso loro (come confessa candidamente Henry Hill/Ray Liotta in Goodfellas: «Che io mi ricordi ho sempre voluto fare il gangster»). Poco importa se i mezzi utilizzati sono stati immorali e delittuosi: un fine tanto legittimo (il sogno) giustifica ogni mezzo e The Wolf of Wall Street, come ogni altro film sul mito del successo spietato, sebbene faccia vedere anche «l'alto costo di qualunque vittoria», né può interessarsi alle vittime né può «suggerirci, con un minimo di convinzione, che dovremmo smetterla di cercare di vincere» (p. 84). La «polvere di stelle» che nutre Wall Street è la stessa del sogno che sostanzia il sistema, e Belfort, come le altre figure di questo tipo di successo, è l'immagine di una mutazione umana - mostro che è stato una volta uomo - i cui «tocchi residui di umanità ci ricordano quanto è accaduto»: è arrivato prima, ma non è certamente un bravo ragazzo (p. 75). Sono figure che non affermano nulla se non una vorace avidità di successo. Non hanno un loro io fuori di queste divoranti ambizioni; sono in effetti le loro ambizioni, e il mito dei bravi ragazzi che arrivano ultimi significa che per queste ambizioni tutti i mezzi sono buoni. Si scavalca il bene e il male per entrare nella pura libertà di una volontà pungolante e imperiosa. Questi mostri sono forse un avvertimento: il successo, nonostante tutto il suo luccichio, non ti farà felice, e quindi stanne lontano se non sei sicuro di volerlo veramente. Ma se tu sei sicuro, lo stesso ragionamento diventa una generosa autorizzazione: non hai più responsabilità e tutto è lecito. (pp. 75-76)

Come un disfrenato Ahab a cui l'FBI dà la caccia, Jordan ha annunciato la sua vincente missione (catturare le «Moby fucking Dicks», i veri soldi dei veri ricchi) sotto il segno di una bestemmia («Fuck you, USA!») urlata contro la Madre Amarica, imperscrutabile «autolavaggio della moralità» che, come la Las Vegas sprofondata nel deserto di Casinò, è la sola vincitrice di una caccia empia ingaggiata contro i propri volenterosi figli, che essa attira a sé prima di amputare loro gli arti. Il concorrente Belfort è arrivato prima dopo aver ben istruito con il «fuoco» del suo insegnamento (vendere spazzatura agli spazzini) una ciurma di broker debosciati e aver fondato con loro - non l'unione innocente del mito istituzionale dei compagni in viaggio verso la salvezza, ma un patto di uomini che vogliono vivere insieme nella goliardia - la Stratton Oakmont, Inc., «la più grande compagnia del mondo». Nel gergo di Scorsese consapevole che «essere onesti non rende», «il più bravo è solo quello che ha più soldi (...) quello che ha più di tutti gli altri» (The Color of Money), e Belfort va comunque a ingrossare le fila degli «antipatici figli» del successo che Wood, citando All About Eve, ha così descritto (p. 75): sprezzanti dell'umanità, incapaci di amare o farsi amare, talentuosi (questi broker sono i migliori anche perché sanno spendere meglio i soldi), ingordi di ambizione (qui calcolata sulle formule "successo-uguale-denaro" e "denaro-uguale-droga-più-puttane").
Ma la hybris di Jordan, il suo tentativo di rendere reale per sé la «polvere di stelle», viene punita, come da consuetudine, dall'acqua che si richiude sopra la sua volontà (era prevedibile il naufragio della Naomi: in America la salvezza di un uomo o di un gruppo di uomini non è mai prerogativa di un'entità femminile). Abbandonata la Stratton Oakmont, Jordan saluta il suo spettrale corteggio e, sputato fuori dal mostro che era stato costretto a diventare, riemerge ennesimo profeta dell'unica vincitrice. Egli è l'ultimo campione («the baddest motherfucker») di un esercito di intraprendenti (irresistibile la scena nella quale Jordan & Co. tentano di assemblare un femmineo "automa di dollari" pronto al dominio del mondo) ex bravi ragazzi che per il successo hanno rinunciato alla loro innocenza, scoprendo la sistematica incompatibilità dei due termini (così il biglietto dorato garantisce non l'ingresso alla "fabbrica di cioccolato" ma la detenzione in «un buco infernale in Nevada» di cui nessuno ha mai sentito parlare). Perché sebbene ci si possa ancora illudere che Las Vegas sia il selvaggio West (Casinò), in realtà le risorse non sono mai state illimitate, l'uguaglianza è una panzana e ogni conquista ha il suo prezzo. Mito e smitizzazione in America, dove per eredità atavica la libertà dell'uno consegue dall'annichilimento dell'altro, sono inestricabilmente congiunti. L'eden è un inferno dissimulato; e i bravi ragazzi arrivano sempre ultimi.

[1] Dal titolo del capitolo del libro, I bravi ragazzi arrivano ultimi, da cui sono tratte tutte le citazioni nel testo, pp. 73-90

The Wolf of Wall Street, in un certo senso, è un atto dovuto. Era inevitabile, in altre parole, che il dittico Goodfellas-Casinò si prolungasse, anche a distanza di quasi vent'anni, in un trittico. Il primo capitolo (1990) riusciva a materializzare con miracolosa intensità la tensione tra individuo e ambiente; tensione classica trasfigurata da Scorsese in palpabile godimento, benzina di un intero sistema etnico-comunitario, a un tempo paleocapitalista e anima segreta del più avanzato dei capitalismi. Nel secondo (1996), quella stessa tensione e quel medesimo godimento vacillano: Las Vegas è simbolo palese della sempre più impersonale deriva di un capitalismo sempre più smaterializzato e finanziario; il “caldo” Joe Pesci cede il passo al “freddo” De Niro, e le banconote, protagoniste assolute delle prime scene, diventano vieppiù invisibili. Ecco dunque farsi largo la domanda: che succede dunque a quel “calore etnico” che tanto ci aveva affascinati in Goodfellas e che si direbbe destinato all'obsolescenza in uno scenario sempre più dominato dallo strapotere finanziario?

The Wolf of Wall Street è la risposta, è la risposta è più o meno la seguente: “Balle. Ma quale apocalisse finanziaria? Altro che lupi: quelli di Wall Street sono, ben che vada, piazzisti. Tutto qui”. Belfort è un piazzista di fascino – ma sempre piazzista rimane. Gli sbracati toni comici a cui Scorsese si lascia andare, servono proprio a sottolineare che di materia bassa si tratta: nessuna grandezza tragica per questi personaggi a cui va stretta la definizione di “bigger than life” - ma solo perché della vita sono più gonfi anziché più grandi. Che ci sia di mezzo anche il fascino non lo si nega, specie con l'incredibile dispiego di lusso sfoggiato sotto i nostri occhi. E infatti Scorsese (che inizia il film appunto con lo spot della compagnia di Belfort) sa annodare da maestro la derisione e la fascinazione, usandole come reciproco contravveleno, mettendoci in guardia tanto dall'una quanto dall'altra. Lo assiste, indispensabile, Di Caprio: né sotto né sopra le righe, ma come sempre affacciato, in sporgenza, sull'ultimo rigo del proprio pentagramma espressivo.

Il suo Belfort impara immediatamente approdato a Wall Street le due verità fondamentali di quel sistema.
La prima: non esistono crisi. O meglio: esistono solamente le crisi. Pochi minuti di proiezione, ed è già lunedí nero (il crollo del 19 ottobre 1987). Come si sopravvive a quella crisi permanente che è, per antonomasia, il capitalismo? Semplice: si elimina l'idea stessa di crisi. Si elimina anzi l'idea stessa di progressione temporale ordinata. Non c'è né “rise” né “fall”, perché si è sempre “high”. Se da un lato Scorsese continua, come da Casinò in poi, a tracciare archi narrativi sempre piú pedantemente precisi e levigati, al limite dell'accademismo e dell'”unire i puntini”, d'altra parte prende questo suo arco “di taglio”, di sbieco: si interessa infinitamente meno della progressione della storia che del “gonfiore” che, tra un jump cut di montaggio e un movimento di macchina da urlo, emana ciascuna scena, ognuna concepita come una specie di bolla, come una tranche di presente compiaciuto del proprio eccesso estatico. E lo fa perché è Belfort stesso ad abolire qualsiasi prospettiva temporale in nome di un eterno presente, apparentemente privo di bordi, la cui unica sostanza è l'eccesso. Ed è per questo che eccede di sostanze: cocaina in primis, ma non solo. L'imperativo è installarsi in una specie di godimento permanente, che si autoalimenta della propria capacità di seduzione, “a lato” del tempo e come immune da esso. Dialoghi interminabili, in ufficio, sui nani e la loro impiegabilità. Riciclaggio di denaro sporco che fallisce perché una delle staffette si mette a blaterare di nulla con incessante logorrea. È il trionfo del mezzo come contrapposto al fine: e infatti tra le prime scene del film troviamo l'immancabile gag in cui Belfort finge di magnificare le meraviglie di una striscia di coca... e invece alla fine rivela che stava magnificando le meraviglie del denaro, richiamato metonimicamente dalla banconota arrotolata utilizzata per tirarla. Tant'è che l'unica traccia narrativa degna di questo nome e in quanto tale orientata verso un “fine” (l'FBI che indaga sullo strepitoso successo finanziario di Belfort, e lo incrimina) è ridotta a straordinari livelli di esilità, un mero incidente di percorso che, una volta esorcizzato, lascia nell'ultima scena nuovamente il campo libero, proprio come prima, all'infinito girare a vuoto della seduzione.

Proprio l'ultima scena chiarisce quella “seconda verità fondamentale” che già le prime sequenze bastavano a suggerire: ogniqualvolta è in crisi, Wall Street scende dall'Olimpo e si rifà a (su?) Main Street. Questo avviene a vari livelli, ma a Scorsese interessa il livello più schiettamente e epidermicamente ideologico. Wall Street, l'impero della smaterializzazione della ricchezza, funziona solo grazie a un indispensabile supporto ideologico: la materialità. Dall'esagitazione dei broker ai bizzarri rituali che Matthew MacConaughey impartisce al protagonista, Scorsese si concentra su un fantomatico “alfabeto del godimento” connaturato a quel mondo e che vampirizza residui di fisicità elevati a feticcio. E infatti, non è più l'assalto al treno di Edwin S. Porter ad essere citato (come nel primo capitolo del trittico), ma la rasatura della Passione di Giovanna d'Arco di Dreyer, forse il film che meglio ha saputo, nell'intera storia del cinema mondiale, intessere una dialettica tra l'astratto e il concreto, l'immateriale e il materiale.
Wall Street può pretendersi l'impero della smaterializzazione quanto vuole, ma non si libera affatto dalla mitologia del godimento. Anzi: ne è ancora più succube. Appena sbattuto il naso contro il lunedì nero, Belfort capisce subito come reagire: scendendo a Main Street in cerca di “quei bravi ragazzi”, pressoché letteralmente presi dalla strada, che possano far ripartire la macchina del guadagno facile proprio in quanto contrappeso antitetico, il “mondo reale” come necessario antidoto da somministrare quando serve affinché quel cane che si morde la coda che è il capitalismo finanziario non giri a vuoto, inceppandosi. Senza il suo cordone ombelicale ideologico, a Wall Street manca l'alimento vitale. L'ineffabile Belfort, non a caso, verrà infine acciuffato dall'FBI proprio perché tradito dalla sua nostalgia di una comunità. Insomma: il sugo di Goodfellas è vivo e lotta – anche se non si sa se insieme a loro con la loro mitologia del godimento o a noi che li guardiamo, disgustati e affascinati a un tempo.

Il Colore dei Soldi, con Martin Scorsese “ingaggiato” dal suo nuovo attore feticcio Leonardo Di Caprio, meno incisivo di quel che vorrebbe nel suo ruolo, previa imperitura faccia da bravo ragazzo. Uno Scorsese che confida, ancora, nella penna di Terence Winter (Boardwalk Empire), per aggiungere un tassello alla moda dei film biografici scanzonati su figure criminali del passato. Come raramente ha fatto, si affida alla commedia pura (Fuori Orario era un ironico dramma dei paradossi), e non è il genere dove dà il meglio di sé (divertente, però, la scena con Di Caprio stonato che striscia verso la macchina). Non è un caso che sia l’unica opera men che discreta nella filmografia del grande regista insieme ad Al di là della Vita, con cui condivide gli stati di alterazione mentale e filmici dei personaggi. I fattori poco convincenti sono tanti: la lunghezza abnorme (ma in Tv i tagli non si contano), dovuta anche al largo spazio lasciato all’improvvisazione (lunghe riprese con farfugliare vario, soprattutto di Jonah Hill, uno dei personaggi più riusciti); un argomento poco sorprendente e già affrontato (dalle memorie di Jordan Belfort, fonte di ispirazione per 1 Km da Wall Street, consulente del film e fan del Gekko di Wall Street); una ragion d’essere che si esaurisce nel ritrarre eccessi (accaduti ma incredibili) di esaltati drogati malati di sesso (V.M 14), con festini che paiono uscire da Una Notte da Leoni; la mancanza di personaggi “veri” (sono segni, macchiette, figure che si esauriscono nella rigidità del ruolo). Forse l’equivoco di fondo alberga nella sincerità con cui Belfort si è messo a nudo nell’autobiografia, assente nel prodotto filmico, sommerso dall’affabulazione e dal registro grottesco. Scorsese, poi, è Scorsese: basterebbe l’ultima inquadratura sul pubblico televisivo che pende dalle labbra di Jordan, a far rileggere tutta l’opera, anche troppo ambigua nel ritrarre un protagonista da salvare o da stigmatizzare, quale trattato sul Sogno americano, su di una nazione che continua a credere nel self made man, nelle figure carismatiche, non importa se pistolero o probo.

«Le cose appartenevano a chi se le prendeva.
E adesso è tutto finito. E' questa la parte più dura.
Oggi è tutto diverso: non ci si diverte più».
(Goodfellas)

«Tutto è in vendita» nel mondo del miliardario Jordan Belfort, "lupo" o leone declassato di una giungla infestata da truffatori e clienti, prostitute e puttanieri, degenerati vincenti e bravi ragazzi perdenti, tutti ugualmente drogati di quella materia sopra la quale l'America ha finito per fondare la propria geografia e la propria cultura, la propria vocazione e il proprio mito: il dollaro. I soldi, difatti, nell'universo del film degradato a circuito passante per i cardini America, Wall Street, Stratton Oakmont, Inc. e ancora America («Questa è Ellis Island, gente - grida Belfort al suo pubblico - questa qui è la terra delle opportunità. Stratton Oakmont è l'America!»), assicurano la libertà, l'indipendenza, l'invulnerabilità e, last but not least, tanto divertimento; fissano il successo dell'individuo e rendono le persone migliori, poiché si è migliori, in un mondo così carburato, se si possiedono la macchina più cool e la moglie più bella, i figli perfetti e la barca più lunga, accessori accessibili quanto le merci di una televendita.
Il cinema americano ha spesso raccontato l'ossessione della nazione per il successo, l'ambiguità dell'«ambizione disperata come fondamentale virtù americana e insieme come tentazione rovinosa», personificata da figure "mostruose" che ambiscono a niente di meno di tutto ciò che si può avere, ed è difficile trovare una definizione migliore dell'ambizione in America. I modelli sono quei re che infestano i film: la pistola più veloce del West, il più grande giocatore di biliardo d'America, il più grande giocatore di poker del paese, il campione mondiale dei pesi massimi. I migliori. [Michael Wood, L'America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979, p. 77]

1987. Jordan Belfort, «il più grande» dei venditori, è il tipo di americano sveglio che ha seguito le regole e ha realizzato il suo sogno («Ho sempre voluto essere ricco»): nato povero nella terra delle opportunità, sbarca bravo ragazzo a Wall Street e, imparata alla perfezione la prima lezione della vita (droga, prostitute e niente scrupoli portano al successo, ed essendo il successo a senso unico, sono reali non i soldi che il cliente non smette di investire, ma quelli che il broker continua a intascare), si è trasformato in mostro, Wolfie, ed è diventato il «padrone dell'universo». È diventato cioè uno di loro: dei primi, dei vincenti, dei "cattivi", dei «killer». Secondo quello che Michael Wood ha chiamato il mito dei bravi ragazzi che arrivano ultimi [1], in America «se non sei un killer non puoi vincere»

. Broker o gangster, giocatore o pistolero, molti dei personaggi scorsesiani hanno arraffato velocemente, senza «fare la fila» come la «brava gente», ciò che desideravano e che il sogno americano aveva promesso loro (come confessa candidamente Henry Hill/Ray Liotta in Goodfellas: «Che io mi ricordi ho sempre voluto fare il gangster»). Poco importa se i mezzi utilizzati sono stati immorali e delittuosi: un fine tanto legittimo (il sogno) giustifica ogni mezzo e The Wolf of Wall Street, come ogni altro film sul mito del successo spietato, sebbene faccia vedere anche «l'alto costo di qualunque vittoria», né può interessarsi alle vittime né può «suggerirci, con un minimo di convinzione, che dovremmo smetterla di cercare di vincere»

. La «polvere di stelle» che nutre Wall Street è la stessa del sogno che sostanzia il sistema, e Belfort, come le altre figure di questo tipo di successo, è l'immagine di una mutazione umana - mostro che è stato una volta uomo - i cui «tocchi residui di umanità ci ricordano quanto è accaduto»: è arrivato prima, ma non è certamente un bravo ragazzo

. Sono figure che non affermano nulla se non una vorace avidità di successo. Non hanno un loro io fuori di queste divoranti ambizioni; sono in effetti le loro ambizioni, e il mito dei bravi ragazzi che arrivano ultimi significa che per queste ambizioni tutti i mezzi sono buoni. Si scavalca il bene e il male per entrare nella pura libertà di una volontà pungolante e imperiosa. Questi mostri sono forse un avvertimento: il successo, nonostante tutto il suo luccichio, non ti farà felice, e quindi stanne lontano se non sei sicuro di volerlo veramente. Ma se tu sei sicuro, lo stesso ragionamento diventa una generosa autorizzazione: non hai più responsabilità e tutto è lecito. [pp. 75-76]

Come un disfrenato Ahab a cui l'FBI dà la caccia, Jordan ha annunciato la sua vincente missione (catturare le «Moby fucking Dicks», i veri soldi dei veri ricchi) sotto il segno di una bestemmia («Fuck you, USA!») urlata contro la Madre Amarica, imperscrutabile «autolavaggio della moralità» che, come la Las Vegas sprofondata nel deserto di Casinò, è la sola vincitrice di una caccia empia ingaggiata contro i propri volenterosi figli, che essa attira a sé prima di amputare loro gli arti. Il concorrente Belfort è arrivato prima dopo aver ben istruito con il «fuoco» del suo insegnamento (vendere spazzatura agli spazzini) una ciurma di broker debosciati e aver fondato con loro - non l'unione innocente del mito istituzionale dei compagni in viaggio verso la salvezza, ma un patto di uomini che vogliono vivere insieme nella goliardia - la Stratton Oakmont, Inc., «la più grande compagnia del mondo». Nel gergo di Scorsese consapevole che «essere onesti non rende», «il più bravo è solo quello che ha più soldi [...] quello che ha più di tutti gli altri» (The Color of Money), e Belfort va comunque a ingrossare le fila degli «antipatici figli» del successo che Wood, citando All About Eve, ha così descritto

: sprezzanti dell'umanità, incapaci di amare o farsi amare, talentuosi (questi broker sono i migliori anche perché sanno spendere meglio i soldi), ingordi di ambizione (qui calcolata sulle formule "successo-uguale-denaro" e "denaro-uguale-droga-più-puttane").
Ma la hybris di Jordan, il suo tentativo di rendere reale per sé la «polvere di stelle», viene punita, come da consuetudine, dall'acqua che si richiude sopra la sua volontà (era prevedibile il naufragio della Naomi: in America la salvezza di un uomo o di un gruppo di uomini non è mai prerogativa di un'entità femminile). Abbandonata la Stratton Oakmont, Jordan saluta il suo spettrale corteggio e, sputato fuori dal mostro che era stato costretto a diventare, riemerge ennesimo profeta dell'unica vincitrice. Egli è l'ultimo campione («the baddest motherfucker») di un esercito di intraprendenti (irresistibile la scena nella quale Jordan & Co. tentano di assemblare un femmineo "automa di dollari" pronto al dominio del mondo) ex bravi ragazzi che per il successo hanno rinunciato alla loro innocenza, scoprendo la sistematica incompatibilità dei due termini (così il biglietto dorato garantisce non l'ingresso alla "fabbrica di cioccolato" ma la detenzione in «un buco infernale in Nevada» di cui nessuno ha mai sentito parlare). Perché sebbene ci si possa ancora illudere che Las Vegas sia il selvaggio West (Casinò), in realtà le risorse non sono mai state illimitate, l'uguaglianza è una panzana e ogni conquista ha il suo prezzo. Mito e smitizzazione in America, dove per eredità atavica la libertà dell'uno consegue dall'annichilimento dell'altro, sono inestricabilmente congiunti. L'eden è un inferno dissimulato; e i bravi ragazzi arrivano sempre ultimi.

[1] Dal titolo del capitolo del libro, I bravi ragazzi arrivano ultimi, da cui sono tratte tutte le citazioni nel testo, pp. 73-90