TRAMA
Un insegnante di inglese obeso e solitario cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente allontanata per avere un’ultima possibilità di redenzione.
Vincitore del premio Oscar al migliore attore protagonista, Brendan Fraser.
RECENSIONI
«Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Romani, 8:12). Quando Thomas, un ragazzo in fuga dai genitori che finge di essere in missione per conto della New Life Church, si avvicina a Charlie con in mano una Bibbia rossa per recitare queste poche righe, possiamo finalmente leggere nome e cognome del proprietario del libro, dell’uomo che, come nei più grandi capolavori hitchcockiani, viene continuamente evocato senza potersi manifestare, esercitando la sua presenza attraverso l’occultamento della propria immagine. Il nome appuntato a penna sulla prima pagina del testo sacro è Alan Grant. E Alan Grant non è solo l’uomo amato da Charlie, il compagno scomparso, l’amante perduto, lo studente per cui il protagonista di The Whale ha abbandonato la moglie Mary e la figlia Ellie e la cui morte ha scatenato in lui la volontà di un’obesità autoindotta. Nell’immaginario popolare Alan Grant è anche, e soprattutto, l’immortale paleontologo di Jurassic Park interpretato da Sam Neill, l’uomo che viene chiamato per avallare il parco divertimenti, per certificare, giustificare e validare con la sua presenza, la sua immagine, la nuova vita degli enormi dinosauri di John Hammond. L’assenza di Alan Grant da un lato e la presenza di Alan Grant dall’altro, ma sempre e comunque la nuova vita, new life. Quella della chiesa che con i suoi dogmi e il netto rifiuto dell’omosessualità ha condotto Alan al suicidio, quella che, promettendole migliaia di euro e aiuto con la scrittura di alcuni essay, tenta di avere Charlie con la figlia Ellie, una ragazza incattivita con l’esistenza e con il genitore reo di averla abbandonata quando era ancora una bambina; ma anche quella dei dinosauri nel parco, modificati geneticamente e ricreati grazie al prelievo di parte del loro DNA contenuto nel sangue delle zanzare fossilizzate nell’ambra e quella del dinosauro-Brendan Fraser, imbalsamato dal cinema hollywoodiano all’interno dell’ultimo ruolo con cui il pubblico è solito ricordarlo, quello nel franchise, caso vuole, di La mummia.
Pertanto, per quanto la lettura di una biografia attraverso un’opera d’arte sia un giochino tendenzialmente sterile, è difficile non leggere la splendida interpretazione di Fraser nel film di Aronofsky alla luce delle molestie che l’attore ha denunciato di aver subito da parte di Philip Berk, ex direttore della Hollywood Foreign Press Association, dell’ammissione di una lunga depressione e del quasi totale ritiro dalle scene di un mondo del cinema che lo aveva cristalizzato in quell’immagine con l’addominale scolpito e il ciuffo castano fluente. Il cinema come assassino, quindi, e il cinema come pratica di tassidermia: il cinema come l’ambra di Jurassic Park, che uccide e ridà la vita, la vita che può ricominciare solo con la rimessa in immagine di un Fraser trasformato che con sé porta i drammi e dolori del suo essere umano. “La vita vince sempre”, dice il Professor Malcom in Jurassic Park, e lo fa attraverso la mutazione. Anche nel capolavoro di Steven Spielberg, d’altronde, la nuova vita prendeva forma contravvenendo alle regole di un parco, che fosse quello dei dinosauri o quello hollywoodiano, che definiva lo standard dei corpi attraverso la tecnica, quello che i corpi dovevano essere o potevano fare, estetizzandoli (per esempio, rimuovendone il piumaggio) e proponendo allo sguardo solamente esemplari femmine, teoricamente incapaci di riprodursi ma concretamente in grado di trovare vie inedite per farlo. La mutazione di Fraser (da avventuriero col corpo scultoreo in lotta con delle divinità antiche a corpo obeso zoomorfizzato in lotta con gli umani fantasmi del passato e ripreso nell’umiliante atto di masturbarsi di fronte a un computer) serve quindi ad Aronofsky per scandagliare le profondità di un dramma reale, interno al film e alla vita dello stesso Fraser – come leggere altrimenti quelle lacrime durante la standing ovation veneziana? – e portarlo alla luce per elaborarlo.
“Qualche anno di perfezionamento e non dovremo più neanche scavare” dice Alan Grant in una delle prime sequenze del film del regista di Duel guardando il render del fossile di velociraptor. Come a profetizzare che l’avvento del digitale, di quel cinema di cui Jurassic Park è stato capostipite (introducendo per primo l’uso massivo della C.G.I), con il parco di Isla Nublar a farne da potente metafora, e di quell’epoca dominata dalla decodifica del DNA e dalla diffusione di massa del computer – l’epoca che W.J.T Mitchell chiama “della biocibernetica”, facendo proprio riferimento al film di Spielberg – avrebbe anche portato all’abbandono della profondità per abbracciare un’estetica della e una riflessione sulla superficie. Come atto di reazione, Aronofsky vuole utilizzare The Whale, la sua balena, il cetaceo che diventa sfogo delle frustrazioni dei tanti aspiranti Achab, personaggi in cerca di redenzione, perdono o di una semplice ragione di vita, per mostrarci il dramma dietro la metafora e spiegarci come le allegorie nell’arte, tanto in letteratura quanto nel cinema, siano spesso un modo per raccontare per simboli la disperazione nuda e cruda dei propri autori, al contempo edulcorandola, spostandola, rendendola sostenibile agli occhi.
Quello che sembra premere il regista sono quindi gli atti di sincerità, il disperato bisogno – in un periodo storico in cui il deepfake e l’intelligenza artificiale paiono sgretolare il reale e promuovere l’ingresso nella scena di doppi impalpabili dell’umano, di Doppelgänger immateriali, allontanandoci e alienandoci ulteriormente dai nostri corpi – di lottare contro il Jurassic Park e creare una “contro-nuova vita”, di trivellare in profondità, dissotterrare l’uomo sepolto sotto l’attore, recuperare l’“analogico”, il materico, l’umano e l’umanità a partire dal profilmico, dall’uso di una tuta protesica di oltre centotrenta chili di peso che ha reso la presenza sul set un inferno per l’attore. Utilizzato come perno rotatorio di una macchina da presa che con delle mezze carrellate circolari ce ne mostra l’imponenza e l’impotenza, compresso in un 4:3 che sembra schiacciarlo come a volerlo fare esplodere, eruttare verso lo spettatore, Charlie/Fraser cerca una liberazione dal dramma e la trova in un’ultima, ulteriore metamorfosi formale: se il film si apre con un campo lungo su una strada tra i prati che lascia spazio a uno zoom sul quadrato nero, la telecamera spenta con cui Charlie cela la propria immagine agli studenti del suo corso di scrittura online, finisce, dopo che l’uomo ha rivelato la sua obesità ai corsisti e spaccato il computer, con il suo corpo mastodontico che levita, un campo lungo e uno schermo bianco. La mutazione, la nuova vita.