TRAMA
Grace e Jonathan Fraser sono due professionisti affermati di New York (lei psicoterapeuta, lui oncologo pediatrico) e sono sposati felicemente. Hanno una bella casa a Manhattan, sono benestanti e il loro figlio dodicenne Henry frequenta una prestigiosa scuola privata. Tutto questo castello dorato comincia a crollare quando Elena, la mamma di un compagno di scuola di Henry, viene brutalmente assassinata nel suo studio, e Jonathan, che improvvisamente sparisce, diventa il sospettato principale.
RECENSIONI
Un lavoro che si configura come un classico whodunit può seguire varie strade, sempre tenendo presente che i tasselli che vengono disseminati durante il racconto devono muoversi secondo i principi della forza centripeta; in un dato momento, una sorta di agnizione da giallo – un disvelamento delle reali intenzioni, più che delle identità celate – consentirà di ricombinare ciò che appariva spaiato. I frammenti convergeranno verso un centro ideale e ogni elemento troverà il suo senso all’interno della narrazione. Ci sono certo casi particolari di noir spuri, in cui il paradigma sembra collassare: è il caso, solo per citarne uno, di lavori come Vizio di forma, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon; un’indagine nell’indagine ecc. che denuncia la sostanziale impossibilità di stabilire un baricentro univoco, tanto nella letteratura (o nel cinema) quanto nella vita.
A dirla tutta, un meccanismo affine a quello enunciato all’inizio funziona anche nei cosiddetti legal thriller (che spesso sono più di quanto non si dichiarino): si pensi al congegno a orologeria, o per meglio dire a fendenti incrociati, di Testimone d’accusa, diretto da Billy Wilder su testo di Agatha Christie. Ma pure, per rimanere ancorati a esiti non sovrumani, alla struttura di Presunto innocente, che The Undoing sembra evocare in più di un elemento. Uno fra tutti: le modalità simili del ritrovamento dell’arma del delitto, di nuovo un martello insudiciato e ripulito dalle tracce ematichE.
A proposito di tasselli/indizi in attesa di ricombinazione, sembra (sembrava) centrale una scena ambientata nello studio della psicologa Grace Fraser (Nicole Kidman), durante una terapia di coppia; un partner aveva tradito l’altro e la dottoressa ha un’intuizione che sembra aprire una breccia nelle difese del fedifrago. Il desiderio inconscio di farsi scoprire, ciò che Grace afferra, avrebbe potuto rappresentare, con una certa dose di approssimazione, quella che Aristotele, nella Poetica, chiama hamartia e che i postulati contemporanei della creative writing definiscono come fatal flaw o tragic flaw. In altre parole, se il colpevole dell’omicidio di Elena Alves (Matilda De Angelis) fosse stato inconsapevolmente affetto dalla volontà di farsi incastrare, la trama avrebbe potuto condurci attraverso un’indagine interessante anche a livello psicanalitico, congiungendo il difetto fatale con una disamina sul mostro (o, più verosimilmente, in casi come questi, sui mostri).
David E. Kelly, già autore di Big Little Lies (non esente da difetti analoghi, benché più coeso), e la regista danese Susanne Bier, ciascuno per propria parte, scelgono invece di inserire dei pezzi tagliati ad hoc, quindi fallati, drammaturgicamente scorretti, nel puzzle thriller. Decidono di lavorare dall’esterno verso l’interno – sono già celebri gli splendidi cappotti emozionali di Nicole Kidman – o di sondare i caratteri attraverso espedienti sul filo del gore: i dettagli reiterati sullo sguardo di Grace, iniettato di sangue, gli occhi luciferini di Franklin (Donald Sutherland), al quale spetta una scena potente, ma in definitiva innocua. Ciò perché non si riesce – o non si vuole – a scavare davvero, a trovare motivazioni, conflitti, traumi che non si riverberino solo sulla superficie chic, curatissima della confezione.
Se infatti nei primi due episodi, pur senza un particolare lavoro di cesello, si raccontano piuttosto bene le crepe di una famiglia borghese ormai quasi televisivamente archetipica – e, per analogia con la storia familiare di Grace, di un modello di famiglia imploso –, la terza ora scopre le falle di una di narrazione che tende a confondere le carte in modo tanto palese quanto disonesto, sempre da un punto di vista narrativo. E si badi che non si tratta della prassi del giallista accorto che, come in un gioco di prestigio, porta lo sguardo a posarsi sul dato irrilevante, o sull’hitchcockiano macguffin, magari, perché ciò che urge rimanga nell’ombra. No, non si tratta proprio di un impianto simile a quello del nolaniano The Prestige che non è un giallo, ma lo sembra. E ci spiazza davvero, senza però ingannarci in modo deliberato, perché l’inganno stesso è alla base del congegno filmico a cui abbiamo scelto di assistere, con ogni implicazione meta-cinematografica che questo implica.
Qui il gioco, se così si può definire, dato che il guardante ne rimane presto escluso, avviene su un piano che non riesce mai a conciliare del tutto le esigenze di una storia basata su un presupposto character-driven (in quella sorta di rapporto trino Grace-Jonathan-Franklin, interessante, ma purtroppo sondato solo in apparenza) con la dinamiche plot-driven che ci si attenderebbero da una caccia all’assassino. Dunque New York si comprime fino ad assumere la spazialità di una cittadina dove è plausibile che da una serata di gala, sita nel distretto finanziario di Manhattan, si finisca a passeggiare ad Harlem (Upper Manhattan), per caso, proprio nei pressi del luogo di un efferato omicidio. Se si accettano le indicazioni del sito untappedcities.com, i due luoghi distano a piedi circa tredici kilometri, trovandosi l’uno a One State Street e l’altro al civico 181 di Malcolm X Boulevard. Va solo un po’ meglio con la passeggiata notturna di Grace che, coperta da una vestaglia, lascia l’appartamento del padre per raggiungere quello coniugale, dove si è stabilito, in attesa di processo, Jonathan (Hugh Grant). Per recarsi dal 1215 di 5th Avenue all’ 8 East sulla 63ma strada, la donna avrebbe dovuto percorrere poco più di tre kilometri.
O ancora, forse per instillare un tarlo che dura tuttavia pochi secondi, gli autori ritengono di inserire una scena in cui due persone, che non hanno alcun interesse a farsi vedere insieme, parlottano complici proprio davanti alle finestre della scuola frequentata dai rispettivi figli.
Lo spettatore, intontito da sviluppi fuorvianti, talvolta sul confine col posticcio, e da strategie processuali almeno discutibili (con tanto di acquisizione probatoria di testimonianze de relato), smette di partecipare e si limita, come nella più scontata delle messe in scena, ad assistere, a subire gli sviluppi della trama che si sbroglia davanti ai suoi occhi. Il patto assembleare, così appassionante, specie in storie come questa, si disgrega in uno sviluppo calato dall’alto, secondo regole che non sempre ci appaiono chiare o comprensibili; un thriller, The Undoing, che si comporta come l’Uroboro, il serpens qui caudam devorat. Fagocita se stesso, la sostanza del proprio tempo/senso narrativo, smerigliato attraverso costumi e interni da favola, levigato da una New York ancora una volta cartolinesca, schiacciata, e da un cast solido, che fa quello che può.
Il finale – The Bloody Truth, si intitola – così smagliato da sembrare un tranello, dimostra soltanto il teorema secondo il quale un singolo pezzo che sgalla, se ci si muove nel territorio multiforme del thriller, fa saltare l’intero puzzle. E in The Undoing, purtroppo, non resta che constatare che di frammenti mancanti, o giustapposti con troppa poca cura per la complessità delle relazioni umane e per la verosimiglianza narrativa, ce ne sono diversi.