Commedia, Recensione

THE TERMINAL

Titolo OriginaleThe Terminal
NazioneU.S.A./ Australia
Anno Produzione2004
Genere
Durata128'
Tratto dadal soggetto di Andrew Niccol e S. Gervasi
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Viktor Navorski sbarca all’aeroporto di New York proprio quando il suo piccolo Paese subisce un colpo di Stato: egli si ritrova senza documenti né nazionalità e, intrappolato in una falla del sistema, è costretto ad attendere nel terminal.

RECENSIONI

Come rappresentare l’America dopo l’Undici Settembre? Attraverso il simbolo della grande isteria collettiva: l’aeroporto. E chi poteva farlo, se non Steven Spielberg? Proprio questo il problema: il Vostro (ché dopo questo film evito di rivendicarne il “possesso”) propugna l’ennesima Idea, l’ennesima causa precotta da allineare al foltissimo scaffale dei surgelati: c’è una maniera banale di trasmettere un messaggio, per far passare un (il proprio) paradigma e dunque rendere tale film “necessario”? Il Vostro –ancora- la conosce a memoria e per l’occasione la scatena senza troppi fronzoli: tanto si parla del “nostro momento storico” con contorno di Twin Towers (l’ambientazione non è casuale), un tema tanto scottante che nessuno si azzarderà a contraddirlo. Forse. O forse dopo la prima ora di film, che getta tenaci premesse imbevute d’originalità (su tutto: lo spettacolo dei titoli di testa), lo spettatore si accorge che il racconto è annacquato fino all’inverosimile? Forse che la storia d’amore viene inchiodata all’intreccio a martellate, senza troppi complimenti, nonostante sia risolta con un guizzo d’eleganza? Forse che l’immota smorfia dolceamara di Hanks ed il sorriso “modellistico” della Zeta-Jones rischiano di ipnotizzare la platea dopo una manciata di minuti? Forse che Stanley Tucci si dibatte nell’acquario di un’incontrastabile macchietta?
Spielberg conferma la profonda abilità a manovrare i ritmi della commedia, di cui ormai conosce segreti e benevoli inganni (il siparietto linguistico); è quando si prende (troppo) sul serio che iniziano i problemi, affrescando il personale del terminal come una moderna Corte dei Miracoli –un santuario di poveracci e/o disgraziati e/o infelici riunito per l’occasione- e, nonostante peschi un briciolo di tenerezza (Navorski che si “immagina” nei vestiti della vetrina), tirandola come un elastico fino a renderla vagamente ricattatoria. I passaggi conclusivi, scanditi in modo meramente meccanico, decretano il naufragio nella melassa senza salvagente – tapparsi le orecchie alla battuta conclusiva, al fine di conservarle intatte. La fotografia di Kaminski rischiara gli interni aeroportuali (notevole il chiaroscuro giorno-notte, la folla e la solitudine) e tocca la perfezione nel morbido tratto della Grande Mela innevata; lo spartito di John Williams asseconda i toni retorici del racconto senza astenersi dall’azzeccare il motivo caratteristico. Le giravolte, capriole, invenzioni della m.d.p. –vetri, volti, sguardi e riflessi- le lascio alla goduria del singolo spettatore, come ulteriore rimpianto per l’enorme potenzialità di un grande burattinaio che, evidentemente, ha dimenticato il talento in aeroporto: d’altronde è Spielberg al 100%, che impone il classico “prendere o lasciare”. Una scelta che non mi toglierà il sonno: l’evento è riservato a smoking e salotti, per soli inviti, espletando alfine le sue intenzioni di partenza. Davvero un gran comunicatore, il Vostro, vicino al maestoso entertainment su sfondo sociale ma parecchio lontano dal cinema.

La sequenza di apertura, con i totali dell’aeroporto, ricorda Playtime di Jacques Tati, per rimarcare il nodo centrale della pellicola che critica, rappresentandole nei loro paradossi, la burocrazia e organizzazione sociale moderne (il personaggio di Stanley Tucci cita Ai Confini della Realtà). Dopo Prova a Prendermi, Steven Spielberg insiste con le commedie scritte da Jeff Nathanson che, coadiuvato da Sacha Gervasi, questa volta non gli rende un buon servizio: le gag non sono irresistibili, il racconto e le motivazioni dei personaggi sono poco credibili (Viktor che, di punto in bianco, comprende l’inglese; Viktor che non vuole uscire senza documenti). In fondo il film, ispirato alle vicissitudini di un iraniano bloccato nell’aeroporto parigino del 1988 (raccontato da Tombés du Ciel, 1993, di Philippe Lioret), è incentrato su di un altro E.T. (perfezione buonista compresa) che deve tornare a casa senza permanere in una falla del sistema: emozionante il momento in cui la raggira, immancabile ‘l’americanata’ in cui i non desiderati si ribellano. Kafkiano, andrew niccoliano (suo il soggetto, su immigrazione e intolleranza), il film è un altro Truman Show con Tom Hanks che rifà Charlot (quando tenta, contorcendosi, di dormire sulla sedia) passando attraverso Mr. Smith va a Washington di Frank Capra (il candido integerrimo): un piacevole, per quanto lezioso, tuffo nel cinema rooseveltiano con indosso la tecnica espressiva di un maestro (il dolly all’indietro per sottolineare la solitudine fra la folla del protagonista, tutta l’inventiva dinamica girando in un unico interno) evitando in parte il lieto fine (la traccia sentimentale).