TRAMA
In un villaggio della Mongolia circondato da sterminati campi di girasoli arriva Ma Xiaogang, appena uscito di prigione dopo avere scontato sei anni per aver violentato una maestra. Ossessionato dal ricordo di quel drammatico episodio, il ragazzo invia ogni giorno alla donna vittima della sua violenza una lettera con un petalo di girasole.
RECENSIONI
Dalla Cina con sopore
Il film dell'esordiente Wang Baomin racconta, attraverso cinque capitoli, la storia di un ragazzo tostatore di semi che, uscito di galera dopo avere scontato sei anni per uno stupro, torna in contatto con la ragazza che ha violentato, di cui è profondamente innamorato. La cinque parti in cui si suddivide la narrazione si affidano molto al flashback. Il problema è che passato e presente si amalgamano con poca chiarezza, quasi senza soluzione di continuità (gli interpreti sono gli stessi, cambiano solo gli abiti) e il racconto procede confuso riservando ben poche sorprese e spunti di interesse. Non mancano ambizioni poetiche (il frequente ricorrere all'immagine evocativa del girasole) e una ricerca formale nella composizione delle immagini (le inquadrature non sono mai casuali). Così come è forte, ma non sviluppata in modo adeguato, l'impossibilità del protagonista di riconquistare la libertà una volta uscito dal carcere, come se, con il suo mutismo, non fosse in grado di scrollarsi di dosso la drammatica esperienza vissuta. Ma è soprattutto il tedio ad accompagnare la visione. La frammentazione, per di più pasticciata, toglie mordente alla trita vicenda e le frequenti canzoni in stile country di Yang Yi, cantautore girovago definito la risposta cinese a Bob Dylan, danno il colpo di grazia definitivo.

I fiori del mio segreto
Il cinese Wang Baomin, guardando elegantemente al culto floreale di certa letteratura orientale (parlo di Koto del maestro Yasunari Kawabata), si esibisce in una prova di delicatezza e spessore dove il momento narrativo è rigorosamente scandito dalla vita dei girasoli: ponendo come narratore Yang Yi, chitarrista folk a modello Bob Dylan, il film racconta di un tostatore di semi, un soggiorno in gattabuia, un petalo per corteggiare l’amata ed infine un nuovo incontro. Districandosi su una trama esile come uno stelo l’opera, a rischio talvolta di prolissità o ripetizione, non teme di ritagliare tutto il tempo necessario per suggerire sguardi, situazioni umane ed atmosferiche, il progressivo scorrere delle stagioni: il silenzio del protagonista (decisamente plausibile visto il trascorso) racconta l’inutilità della parola, si archivia tutto il resto e resta soltanto il cinema, finalmente, da intendersi come pura arte della visione che sfida la sopportazione del pubblico inquadrando fisso un girasole florido, splendente, inclinato, appassito. La forza della tradizione: un alieno subito equivocato dalla sala (vergognosa la fuga durante la proiezione), che per il suo ostinatamente essere “diverso” rispetto al gusto corrente (ed esserlo alla grande) non avrebbe demeritato il premio altrove assegnato.
