
Le discretamente numerose righe che state (forse) per leggere hanno origine dalla passione del sottoscritto per i Simpson e dalla constatazione che il libro I Simpson e la filosofia, recentemente pubblicato per ISBN, ci è sembrato (sempre a noi, il sottoscritto di cui sopra) opera “meritevole”.
Partendo dai saggi a loro dedicati, tra riassunti e arditi dissensi, parleremo dunque dei Simpson, analizzando uno a uno i cinque componenti della famiglia, per poi concludere con un blando tentativo di rubare il fuoco agli dei, cercando cioè di ca(r)pire i segreti della comicità simpsoniana e di enucleare i perché e i percome del loro essere così cool. Nientemeno. Non se ne farà di niente, o almeno, di pochino pochino, ma è stato bello esserci.
Chi li ama, se gli va, mi segua.
Mamma Simpson è la reificazione del noto concetto di “Angelo del focolare”: i suoi orizzonti sono quelli domestici e la sua vita sembra del tutto consacrata ad “accudire” il marito, la famiglia e la casa. Non solo. Marge Simpson è anche il personaggio più aristotelicamente “virtuoso” di tutta la serie, perché il suo agire (e il suo posizionamento etico) sembra sempre figlio di una razionale mediazione tra estremi, perfetta esemplificazione della descrizione che Aristotele, nell’Etica Nicomachea, fa delle Virtù come “giusto mezzo tra due estremi viziosi, uno per eccesso e uno per difetto”.
Erion e Zeccardi, gli autori del saggio a lei dedicato “La spinta morale di Marge”, evidenziano la differenza tra la “moralità” di Marge e quella del buono per antonomasia della serie, Ned Flanders, il “teorico del comando divino”. La morale di Ned è eterodiretta, non interiorizzata e del tutto sovrapponibile ai comandamenti divini. Ned non agisce “secondo coscienza”;, si limita a seguire delle direttive. Marge, per converso, pur credente e praticante, non sembra guidata dall’alto nelle sue decisioni ma si limita a seguire il proprio buon senso o meglio quello che il proprio buon senso le dice essere “il meglio” per la sua famiglia e quindi per lei.
Marge può essere definita come un’aristotelica di sfumatura cristiana, crede nel messaggio cristiano di fondo ed è da quello che sembra essere “guidata” (pace, buona volontà ecc.), ma è pronta a trasgredire le sovrastrutture etico/religiose fatte di precetti e comand(ament)i in nome della ragione, del buon senso e della coscienza personali (rectius: familiari).
Il saggio chiude evidenziando la platonicità di questo aspetto margiano (nell’Eutifrone si legge che la morale sarebbe arbitraria se la teoria del comando divino fosse vera, perché dio potrebbe comandarci qualunque cosa che diventerebbe “giusta” per il solo fatto di provenire da dio) e aggiungendo che comunque, se Marge non è definibile l’aristotelica perfetta solo perché la serie “I Simpson” per sua natura è contraddittoria (giusto) e dunque anche Marge ha le sue macchie disseminate tra gli episodi dei Simpson. Su tali macchie, però, Erion e Zeccardi omettono di scendere nello specifico e chiudono un po’ troppo “genericamente”.
L’opinione di chi scrive è, invece, che il trattamento riservato dagli autori a Marge Simpson ha qualcosa di diabolico, che sottende un biasimo sottile e ambiguo per il personaggio. Marge, cioè, potrebbe essere placidamente consacrata alla famiglia solo in apparenza ma nascondere, in realtà, una carsica insoddisfazione della sua vita sempre sul punto di esplodere: così si spiegano, forse, le sue crisi di nervi, la sua debolezza nei confronti di certi viziosi catalizzatori (il gioco d’azzardo) e la sua ansia di cambiamento e di (futili) “riscatti”. Il forte dubbio insinuato dagli autori è che dietro alla facciata di aristotelica “virtuosa del giusto del mezzo” si nasconda in realtà una frustrata succube del decoro ipocritamente inteso.
In realtà, tutto il personaggio di Marge Simpson può essere visto infatti come figlio represso delle convenzioni sociali, del “cosa dirà la gente?”: va a messa tutte le domeniche perché sta bene farlo, non certo perché sia una cristiana convinta (non ha battezzato i figli e spesso dorme durante i sermoni del reverendo Lovejoy); è pronta ad accettare e appoggiare palesi idiozie (la “festa delle mazzate”) se il consenso della comunità le rende socialmente condivisibili; diventa invece sfrontata e collerica solo quando il vizio da combattere le pare universalmente riconosciuto come “vizioso” (distrugge, fisicamente, da sola la casa d’appuntamenti).
Se è vero, dunque, che questa “aristotelica di sfumatura cristiana” sembra guidata dal buon senso e dalla morigeratezza, potrebbe essere altrettanto vero che sia non il comando divino di Ned a obbligarla in una direzione, ma un altro comando non meno eterodiretto e vincolante: quello sociale. Marge Simpson, quindi, potrebbe essere la Marge Simpson che conosciamo solo perché sente che la società la vuole sempre e comunque casalinga, moglie devota e fedele nonché madre premurosa.
Adottando questa chiave interpretativa, il finale di un episodio chiave come Scene di lotta di classe a Springfield si apre decisamente alla polisemia: quando Marge è chiamata a elencare i “veri” motivi per cui le piace la sua famiglia chiude la sua breve serie di I like con un tautologico I like Bart; I like Bart. Può essere, certo, tenera dimostrazione di incondizionato amore materno, ma se fosse invece una manifestazione della non-scelta cui Marge Simpson sembra essere condannata dal suo personaggio (“dentro e fuori” l’universo diegetico)? Come a dire che Marge non ha bisogno di reali e meditate motivazioni per essere quella che è;, per fare quello che fa e per amare chi ama: è un canone socio/antropologico che decide per lei, è così perché, insomma, così dev’essere. Senza via di scampo.
Cosa dire della piccola Margaret detta “Maggie”? L’ultimogenita di casa Simpson ha solo un anno, gattona e non sa ancora parlare. Eppure è, al pari e più dei suoi familiari, indecifrabile. E’ vero che il silenzio è “indecifrabile” quasi per definizione, ma Maggie non si limita a starsene zitta e succhiare il suo inseparabile ciuccio: ha sparato al signor Burns, ha aiutato Bart e Lisa a sconfiggere una perfida baby-sitter, ha suonato Tchaikovskji col suo xilofono; il suo proverbiale silenzio è spesso eloquente, e non di rado “esprime” opinioni articolate e complesse: quando Homer chiede ai suoi familiari se questi lo trovino “lento”, la piccola Maggie si unisce attivamente all’imbarazzo generale, dà una succhiata e distoglie lo sguardo affettuoso e pietoso insieme.
Maggie è, insomma, un “mistero”: esserino inerm/te e “agito” o “agente”; deciso e giudicante? Gli esempi prima citati farebbero pensare a una Maggie attiva e senziente, ma è altrettanto vero che sono il silenzio e la passività i tratti che emergono con maggior chiarezza. Non solo: la sola volta che a Maggie viene data la parola (tramite lo strano marchingegno inventato dal fratello di Homer), questa non va oltre le richieste elementari che ci si aspetterebbe da una 1enne come lei.
La sola cosa “certa” e inequivocabile che ci comunica Maggie è che è costretta a crescere in un ambiente assai poco stimolante e che la sua vita potrebbe essere (già) migliore di quella che è;. Quando i piccoli Simpson vengono affidati ai Flanders, le continue attenzioni che questi le riservano la fanno “rinascere”: Maggie si mostra serena e divertita come in nessun altro episodio e arriva addirittura a parlare (dice “papa paparinolo”). Homer e Marge non sono evidentemente questo granché come genitori: Homer, non di rado, si dimentica della figlia minore (“Chi sarebbe questa Margaret Simpson”?, esclama stupito davanti all’impiegato dell’anagrafe) e anche Marge, dietro il suo amore pratico e funzionale, non sembra avere molto di realmente “pedagogico”; da dare alla piccola. La accudisce e poco più.
Il saggio di Eric Bronson dedicato a Maggie si concentra sul silenzio, fa delle considerazioni interessanti ma non traccia nessuna vera “conclusione” sul personaggio degna di nota (c’è da capirlo): partendo dalla biografia di Flaubert scritta da Sartre, nella quale l’esistenzialista francese descrive l’infanzia dello scrittore come caratterizzata dal “mutismo e dall’idiozia”, Bronson traccia un parallelismo Maggie/Flaubert per accomunarne le due infanzie, caratterizzate da un’educazione lacunosa dal punto di vista “spirituale” che induce carenza di autostima. A differenza del piccolo Falubert, però, Maggie sembra avere un “rudimentale processo di pensiero”, anche se largamente misterioso.
A questo punto, Bronson fa un confronto tra il silenzio nel pensiero filosofico orientale e in quello occidentale; l’Oriente ha una “tradizione silenziosa” più consolidata (secondo molti testi sacri orientali è il mondo stesso ad aver avuto origine dal silenzio) ma non mancano i pensatori occidentali fautori del silenzio. Heidegger, ad esempio (che alla stregua dei suoi colleghi tedeschi Schopenhauer e Nietzsche non lesina rimandi alla filosofie orientali), pone particolare enfasi sul “silenzio”, visto come essenziale per vivere un’esistenza autentica. Più problematico rimane, semmai, valutare i silenzi heideggeriani di fronte al nazionalsocialismo e al Terzo Reich.
Sì ma la piccola Maggie? Bronson chiude scrivendo che “in un mondo in cui la burocrazia continua a crescere e vi è un sovraccarico di informazioni, anche noi [come nel “futuristico” episodio dei Simpson nel quale Maggie, in procinto di cantare al matrimonio di Lisa, viene “zittita”] corriamo il pericolo di essere messi a tacere e dobbiamo dunque imparare l’arte dell’ascolto reciproco, per scongiurare il pericolo che altre Maggie Simpson si sentano emarginate dalla società e si rivolgano a “mezzi di comunicazione più distruttivi.
Insomma, ammettiamolo, su Maggie non è che ci sia tantissimo da dire;
Lisa è, molto banalmente parlando, l’intellettuale della famiglia Simpson (e di tutta la serie). Detta così sembra facile. In realtà anche Lisa Simpson, a guardarla meglio, è una bella gatta da pelare perché non tutte le sue tessere contribuiscono alla coerenza del mosaico. Lisa è certamente la più intelligente, colta, saggia e (aristotelicamente) virtuosa della famiglia Simpson e talvolta, considerati anche i soli 8 anni di età, sembra avere qualcosa di prossimo al “soprannaturale”. Eppure. Eppure adora l’idolo delle ragazzine Corey, fa le bizze perché i genitori le comprino un pony, gioca con la pseudo-Barbie Malibu Stacey, architetta tremende vendette contro Bart e sghignazza di gusto mentre Homer deride la disinteressata bontà di Flanders. (L’autore del saggio a lei dedicato, Aeon J. Skoble, ricorda alcune di queste “incongruenze” e cita, a mio avviso erroneamente, anche il fatto che Lisa adori Itchy&Scratchy*).
(*Non credo infatti che la passione di Lisa per il succitato meta-cartone vada citata tra le “trasgressioni anti-intellettuali” che si concede un personaggio altrimenti del tutto “pro-intellettualiì”;. E’ fin troppo ovvio, infatti, che la presenza di Itchy&Scratchy all’interno dei Simpson rappresenti un momento schiettamente autoreferenziale, nel quale una versione solo apparentemente molto distorta dei Simpson esplicita la natura dei Simpson stessi e i possibili “posizionamenti spettatoriali”: abbiamo un cartone animato teoricamente destinato ai bambini, che rivela invece la propria anomalia e la propria unicità ma che comunque, in virtù di una stratificazione dei diversi livelli di lettura, finisce per piacere a “tipi” di pubblico diversi. Nella pratica, il grezzo, anti-intellettuale Bart e la sofisticata intelligentona Lisa ridono delle stesse atrocità cartoonesche per motivi, probabilmente, diversi: Bart si ferma certo al primo livello di lettura e si scompiscia perché vede un sadico topo smembrare un povero gatto, il divertimento di Lisa è, con ogni probabilità più raffinato e profondo, di fronte a un prodotto che riconosce provocatorio ai limiti all’eversivo-rivoluzionario. E’ appena il caso di ricordare, infine, che Itchy&Scratchy non è solo un momento meta-riflessivo asettico e cerebrale ma è anche un raddoppiamento veramente provocatorio, in quanto i Simpson “diventano” effettivamente Itchy&Scratchy e l’assurda ultraviolenza che li contraddistingue è effettivamente mostrata al pubblico simpsoniano composto da grandi e piccini. Vertigine.)
Ma dicevamo di Lisa, intellettuale con qualche macchia bambinesca e molte paure (tipo quella di rimanere senza amici). Skoble si concentra soprattutto sull’ambivalenza del (e verso il) personaggio di Lisa, nel quale vede uno specchio dell’antintellettualismo americano. La tesi è interessante e conviene illustrarla, almeno per sommi capi: la società americana, scrive Skoble, da un lato rispetta gli intellettuali ma dall’altro prova una sorta di risentimento per la torre d’avorio in cui vivono e per la loro “pedanteria”; quindi a molte persone piace citare “gli esperti” a supporto delle proprie tesi, per poi invocare il sentimento popolare quando gli esperti non danno loro ragione, giustificando la cosa con argomentazioni del tipo “è solo una questione di opinioni e la mia conta come quella di chiunque altro”. La cosa è tanto più vera, continua Skoble saltando qualche passaggio e forse contraddicendo in parte le sue premesse, quando la “materia” trattata è di tipo squisitamente intellettuale: tutti sono disposti ad accettare la competenza di un idraulico e di un meccanico. E’ già assai più difficile accettare le opinioni di un medico che avanza ipotesi di tipo “etico”, ma ciò che infastidisce decisamente è l’applicazione della sapienza rispetto a ideali morali e sociali. Nessuno, in sostanza, sembra disposto a farsi dire come dovrebbe vivere (in fondo, siamo in democrazia e tutte le voci hanno uguale valore).
Lisa è un’intellettuale, è saggia e, se si applica, è anche in grado di diventare rapidamente una competente “tecnica” (è grazie alle sue indicazioni che il sedicente medico-chirurgo Nick Rivera riesce a portare a termine l’intervento a cuore aperto su Homer) ma in effetti, non è “esperta” in nessuna materia specifica: la si invoca quando fa comodo, o quando si è disperati (è a lei che Homer si rivolge per ottenere lumi su come riconquistare Marge), ma altrettanto spesso la si taccia di pedanteria (Lisa la vegetariana) o accondiscendenza. Basta questa ambivalenza nei confronti di Lisa a farne lo “specchio dell’antintellettualismo americano”, come scrive Skoble?
Sì e no. Due piccole e non decisive obiezioni alla teoria di Skoble potrebbero essere che 1) Lisa è comunque una bambina di 8 anni il che la rende un esempio molto specifico e sostanzialmente unico, dunque poco “probante”, di intellettuale (la diffidenza nei suoi confronti può essere imputabile alla tenera età più che al suo status di intellettuale) e 2) Spesso Lisa rimane involontariamente inascoltata – ossia – non è che si decide di non ascoltarla o di snobbarla, semplicemente “non la si capisce”.
Episodio 1F20, I segreti di un matrimonio felice, Homer diventa un insegnante.
Lisa – Userai un testo standardizzato o i metodi più socratici della partecipazione attiva degli studenti?
Homer – Sì Lisa, papà è un insegnante.
O ancora, se si pensa che un esempio con protagonista Homer non sia rappresentativo, eccone un altro nel quale è la più assennata Marge a parlare. Episodio 2F21, dove Marge diventa una poliziotta:
Lisa – La polizia non è una forza protettiva che mantiene lo status quo per l’élite facoltosa? Non dovremmo aggredire le radici dei problemi sociali invece di sbattere gente in prigioni sovraffollate?
Marge – (muovendo con la mano il pupazzo di un cane vestito da investigatore) Guarda Lisa, è McGriff, il cane anticrimine: “Ciao Lisa, aiutami a mordere il crimine, bau bau!”.
Ma il vero “punto debole”, se così si può dire, dell’interessante teoria di Skoble è che circoscrive a un personaggio, e all’atteggiamento che la serie ha verso quel personaggio (si fa per capirsi), quello che è invece un sovratteggiamento totalizzante e insieme “fondante” della serie: I Simpson non sono ambivalenti e ambigui verso Lisa Simpson (e dunque verso gli intellettuali), I Simpson sono ambivalenti e ambigui più o meno verso qualunque cosa, come vedremo meglio nelle Conclusioni
Bart la piccola peste. L’incipit del saggio di Mark T. Conard a lui dedicato (Così parlò Bart: Nietzsche e le virtù della cattiveria) non ci convince; vi si legge che Bart Simpson non è un amabile bricconcello che sembra sempre finire nei guai, non è un ribelle dal cuore d’oro. E’ un arguto delinquente, un ragazzaccio in pantaloni blu chiaro, un guastafeste, uno dei tirapiedi di Satana. Come a dire che la “cattiveria” di Bart va presa sul serio e interpretata, per così dire, alla lettera. L’opinione di chi scrive è che i fatti sembrano dimostrare che Bart è esattamente quello che per Conard non è: un amabile bricconcello, ribelle dal cuore d’oro. Le sue malefatte, anche le più oggettivamente “gravi” (il furto del videogioco, l’invenzione della storia del ragazzino intrappolato nel pozzo) finiscono sempre con la sua piccola redenzione, col Nostro che paga in prima persona per le sue azioni e che capisce gli errori commessi (senza contare che sono molti gli episodi nei quali Bart dimostra vero e proprio altruismo, bontà d’animo e sincero attaccamento alla famiglia).
Insomma, non troppo convinti da queste premesse, seguiamo un po’ il bel ragionamento di Conard: in La nascita della tragedia, Nietzsche, ancora influenzato dalla dicotomia schopenhaueriana del Mondo come volontà (che in Nietzsche diventa l’uno originario) e come rappresentazione (la proiezione artistica del mondo), vede nell’Arte la sola via di scampo dall’orrore e dall’assurdità dell’esistenza. In seguito, abbandonato ogni dualismo volontà-rappresentazione, apparenza-realtà, N. sostiene l’esistenza di un solo flusso caotico che è la “sola realtà”. Ciò che ci spingeva a vedere “qualcosa” dietro al mondo, tanto da suggerire una distinzione tra apparenza e realtà, è la struttura del linguaggio: noi diciamo il fulmine che lampeggia come se fossero due cose distinte, come se il bagliore fosse una produzione del soggetto “fulmine”. Il fulmine e il lampo non sono due cose distinte, non c’è essere dietro il fare, l’apparenza non maschera la realtà, l’apparenza è la realtà.
Ne consegue che, in contrasto con l’interpretazione precedente secondo la quale saremmo “proiezioni artistiche”, ossia “opere d’arte” per “l’uno originario”, ora siamo sia volontà che rappresentazione (perché Volontà=Rappresentazione). Nietzsche annulla così, di fatto, la distanza tra Arte e Vita; l’esistenza trova cioè la propria giustificazione e redenzione solo come fenomeno estetico. Bisogna dunque, come scrive ne La Gaia Scienza, “dare uno stile” al proprio carattere, costruirsi un’identità, creare se stessi. Questo ideale nicciano si concretizza nell’Übermensch, l’essere autocreato che fa della propria vita un’opera d’arte.
E Bart? Conard si chiede se Bart Simpson possa essere visto come l’incarnazione di questo “oltreuomo” autocreatosi, che forgia nuovi valori, che fa della sua vita un’opera d’arte. E si risponde di no. Come cartone animato soddisfa certo i prerequisiti (è precisamente e solo quello che fa, la sua apparenza è la sua realtà, non c’è altro “dietro”) ma il suo modo di autodefinirsi, di sfidare l’autorità e la tradizione per abbracciare il caos dell’esistenza e modellarlo in qualcosa di “sensato” è puramente re-attivo. Bart, cioè, non afferma il proprio talento e la propria abilità, non forgia veramente la sua identità ma si limita a opporsi all’autorità, senza la quale non è niente. Quando tutti a Springfield cominciano a comportarsi come lui (Il fanciullo interiore di Bart), Bart si trova disorientato, perduto. Lisa, ovviamente, sa perché e glielo spiega: “Ti sei definito un ribelle. In assenza di una sovrastruttura repressiva la tua nicchia nella società è stata incorporata”. Semplice.
Ma allora Bart c’entra qualcosa con Nietzsche o no? Sì, dice infine Conard. Bart potrebbe incarnare la precarietà della nostra posizione in un mondo post-nietzschiano. Nietzsche aveva già previsto, con timore, le possibili conseguenze dell’abbandono di qualunque consolazione metafisica – ossia – il pericolo di cadere in un nichilismo in cui tutto-va-bene (è curioso constatare che un’eco pseudo-nietzschiana sembra distintamente udibile nelle frequenti esternazioni antirelativistiche di Sua Santità Benedetto Decimosesto). Noi, dice Conard, ci siamo arrivati, e Bart sta lì a dimostrarcelo, Bart è, qui e ora, questo pericolo nichilista: privo di vere virtù e di spirito creativo ha accettato il caos dell’esistenza, in un certo senso ci sguazza, ma senza vera volontà iconoclasta, non nello sforzo di distruggere vecchi idoli, ma solo per mancanza di identità solida e di un sé completo.
Come accennato all’inizio, credo che tutta la interessantissima disanima di Conard sia parzialmente inficiata da una forzatura iniziale – ossia – l’eccessivo credito dato alla “cattiveria” di Bart che ai nostri occhi pare invece il personaggio meno ambiguo e sfaccettato della famiglia Simpson, ascrivibile com’è al noto archetipo di “piccola peste dal cuore d’oro”. Lo conferma il fatto che molti suoi compagni di scuola lo superano agevolmente in quanto a cattiveria (viene frequentemente pestato e deriso da Nelson, Secco & C.) e che in molte sue manifestazioni (dalla passione e la predisposizione per la danza classica all’amore per gli animali passando per l’affetto mostrato per l’apparentemente odiata sorella Lisa) si dimostra un bambino “tenero” e assai sensibile.
Detto ciò, ci pare comunque che Conard abbia colto certamente nel segno nel vedere in Bart (ma noi diremmo più propriamente nei Simpson nel loro insieme) un divertente ma severo specchio del “nichilismo” della società postmoderna, orfana di “verità” e però brulicante di linguaggi e combinazioni pragmatiche… ma di questo parleremo nelle Conclusioni.
Il primo saggio de I Simpson e la filosofia è dedicato a Homer e si intitola, abbastanza semplicemente, Homer e Aristotele, con l’Etica Nicomachea a fare da referente privilegiato; giocando con la categorizzazione aristotelica dei quattro tipi di carattere principali (virtuoso, continente, incontinente, vizioso) Raja Halwani sembra aver vita facile nel trovare personaggi simpsoniani pienamente “aristotelici”. L’ipotesi è semplice: un personaggio trova un portafoglio pieno di soldi, cosa fa? Lisa lo consegna volentieri alle autorità competenti, crede in quello che fa ed è dunque “Virtuosa”; Lenny vorrebbe tenersi il portafoglio ma sa che non sarebbe giusto, dunque finisce per consegnarlo perché è “Continente”; Bart sa cosa dovrebbe fare ma si tiene il portafoglio perché è più forte di lui: è “Incontinente”; Nelson, infine, si tiene il portafoglio senza farsi troppi problemi, il che lo rende decisamente “Vizioso”. Ma Homer?
La sola cosa apparentemente sicura, diciamo “univoca” di Homer, è il suo QI schiettamente basso e l’inesauribile fonte di spunti comici che ne deriva. [è assurdo fare degli esempi della “stupidità” di Homer, autoevidente e ribadita nella serie con imbarazzante frequenza, ma a chi scrive piace citare l’episodio 1F13 (Deep Space Homer) nel quale il Nostro, in partenza per una missione spaziale, continua a comporre il numero di telefono di casa a intervalli regolari mentre sta parlando con Marge, la quale intanto gli assicura che crede in lui e ha fiducia nelle sue capacità]. In realtà, a ben vedere, anche questa apparente ovvietà homeriana ha delle sporadiche eccezioni che sembrano parzialmente incrinare la collocazione del personaggio, come quando Homer diventa il “Barone della birra” di Springfield, o quando escogita il modo per far quadrare il bilancio della città organizzando un (criminale) sistema di smaltimento dei rifiuti: inattese dimostrazioni di ingegno che, sebbene eticamente riprovevoli, non sembrano quadrare perfettamente con la “mitica” idiozia homeriana.
Ma la cosa più difficile da fare, con Homer, è giudicarlo. Giudicarlo moralmente. Halwani nota giustamente come Homer si tenga decisamente alla larga dal proverbiale “giusto mezzo” aristotelico, brillando invece per assoluta mancanza di temperanza (specie in campo cibo/appetito). Homer è inoltre bugiardo (dice di andare a lavoro mentre va alla birreria Duff), egoista (butta giù un progetto di risparmio sul bilancio familiare nel quale “taglia” sostanzialmente tutto tranne la birra poche altre cose che interessano solo lui) e spesso crudele (Flanders va in rovina e lui cerca di approfittarne obbligandolo a svendergli la mobilia). Homer non è un buon padre (più volte si dimentica del tutto dell’esistenza di Maggie, fomenta le rivalità tra Lisa e Bart e tenta assiduamente di strangolare quest’ultimo) né un buon marito (per riconquistare Marge le dichiara che la sola cosa che può offrirle è “la completa dipendenza”). Homer non ha veri amici ma solo colleghi di lavoro (Lenny e Carl) o compagni di sbronze (Barney), mentre secondo Aristotele, in parziale contraddizione col principio dell’autàrkeia, “per essere felici c’è bisogno di amici di valore”. Homer è un fannullone (non esita a diventare un grande obeso per ottenere il telelavoro), un inetto (in sua assenza, alla centrale lo sostituiscono degnamente con un mattone attaccato a una leva o con una gallina che becca qua e là la console di comando) un disonesto (“ruba” la tv via cavo) e non sembra conoscere la parola “responsabilità”.
Ma non sempre.
Per una caratterizzante tendenza dei Simpson a smentirsi, a non lasciarsi catalogare, a stratificarsi, a sfuggire a qualunque facile incasellamento, Homer talvolta sembra contraddirsi con inattesi slanci di generosità e amore paterno (rinuncia al condizionatore per comprare il sax a Lisa), dimostrazioni di amore verso la moglie (è fedele anche quando tutto “cospira” contro di lui) e di affetto verso personaggi che detesta (salva Patty e Selma dal sicuro licenziamento) e così via.
Resta però il fatto che queste ombre positive proiettate in un contesto complessivamente “negativo” rimangono sostanziali eccezioni che da sole non sarebbero sufficienti a giustificare la simpatica ed empatica benevolenza che Homer riesce a riscuotere presso la totalità del pubblico, per non parlare del fatto che, allo stato attuale, Homer sia IL personaggio dei Simpson, se non “I Simpson” nella loro essenza proteiforme, e che dunque risulta il maggiore responsabile dell’affettuoso attaccamento (amore incondizionato?) che il pubblico simpsoniano dimostra verso la sua famiglia/serie tv preferita.
Halwani conclude il suo ottimo saggio sostenendo che Homer non è aristotelicamente “Vizioso” (se non limitatamente al binomio cibi-bevande) e non è tecnicamente definibile cattivo né malevolo ma è ugualmente lungi dall’essere “Virtuoso”. Il pubblico non riesce però a essere troppo duro con Homer perché prova “pietà” di lui, perché in fondo ha molti alibi per essere quello che è: il padre che ne ha sempre frustrato le potenziali ambizioni, la madre che lo ha abband
onato da piccolo, la genetica che lo condanna (i Simpson sono difettosi rispetto al cromosoma Y) e la poco stimolante Springfield che lo ammorba. Inoltre e infine: Homer Simpson non è virtuoso ma ha qualcosa di eticamente ammirevole, ossia, la sua “umanità a tutto tondo”, il suo “amore della vita” che lo porta a “godersela” (a modo suo) senza badare affatto al giudizio della gente. La qual cosa non rende Homer, ipso facto, una persona ammirevole (il suo amore per la vita è un po’ dissennato e Homer si gode una vita comunque poco feconda) ma in un certo senso lo rende ammirevole perché ci fa apprezzare “tutti gli Homer Simpson di questo mondo”.
Queste conclusioni possono anche essere condivisibili e sono senz’altro ben argomentate, ma certo non sono le uniche possibili. In particolare, a me sembra che Halwani sottovaluti un po’ il “fattore stupidità”, che è forse l’unica, vera chiave di lettura in grado di penetrare il mistero Homer: perché non riusciamo a essere “duri” con questo pessimo padre e pessimo marito bugiardo, egoista, crudele, fannullone, inetto e disonesto? Di più: perché “adoriamo” letteralmente questo pessimo padre e pessimo marito bugiardo, egoista, crudele, fannullone, inetto e disonesto? Perché (mente a Occam, prego) Homer è semplicemente troppo stupido per essere responsabile (e dunque “additabile”) di alcunché. Homer è al limite della perenne incapacità di intendere e di volere, il che lo pone decisamente al di là del bene e del male. Non abbiamo pietà di Homer né lo “ammiriamo” o lo “deprechiamo” ma, semplicemente, siamo sempre disposti ad accettare da lui qualunque cosa abbia da offrirci di volta in volta, a patto che sia divertente. E Homer è sempre, tremendamente divertente.
Conclusioni (una specie)
Perché i Simpson fanno così ridere e sembrano/sono così intelligenti e/o “furbi”?…
Come abbiamo visto, ogni tentativo di descrivere compiutamente e univocamente i “caratteri” dei Simpson è destinato a fallire. Questo può essere sintomo di una sapiente costruzione dei personaggi, psicologie complesse impossibili da racchiudere in una definizione, e magari in parte lo è, ma c’è sicuramente dell’altro. Questo “altro” potrebbe essere la tendenza dei Simpson (la serie) a non direeffettivamente niente di definitivo, a prendere continuamente delle posizioni (anche e soprattutto “morali”) solo per contraddirle, magari deridendole, subito dopo. Si tratta di un processo costante e inarrestabile, costruito in abisso, dove il cinismo è destinato a colpire infine se stesso, un processo che Carl Matheson chiama “iper-ironismo”. Matheson attribuisce questa caratteristica dello show alla “crisi di autorità” dei nostri tempi, in campo artistico, scientifico, filosofico, religioso e morale. Questo crollo di certezze, questa assenza di “verità”, tutte evenienze che non esiteremmo a definire “postmoderne” se l’aggettivo non ci apparisse così liso da risultare ormai inutilizzabile, sono pienamente rappresentate dai Simpson, con un elevato grado di autoconsapevolezza.
Intanto c’è lo humour. I Simpson sfoggiano un campionario di umorismo/i adatto/i a molti palati. Si passa dalla gag puramente visiva e quasi archetipica nella sua primordialità (le memorabili cadute di Homer) a quelle più raffinate e oblique, che sfuggono a qualunque tentativo di “interpretazione” (Telespalla Bob che inciampa in una serie infinita di rastrelli), passando per quello che, in definitiva, sembra il tratto più caratterizzante dello humour simpsoniano: il succitato, totalizzante cinismo. La maggior parte del tempo, i Simpson la passano crogiolandosi nell’attaccare tutto e tutti (anche, e ovviamente, se stessi). I bersagli sono infiniti: vizi, stereotipi, moralismi, luoghi comuni, istituzioni, astenendosi però, questo è il punto, dal prendere posizione. I Simpson non sono “moralisti” ma nemmeno “moralizzatori”, i Simpson si divertono a distruggere con una leggerezza e un gusto tali da dissimulare il loro fondamentale fanatismo nichilista.
L’episodio Scene di lotta di classe a Springfield risulta, da questo punto di vista, emblematico ed esemplare: come si ricorderà Marge, grazie a un tailleur di Chanel comprato ai saldi, riesce a farsi invitare al Country Club di Springfield e inizia a fantasticare di una scalata sociale della sua famiglia. L’episodio gioca abilmente con le aspettative dello spettatore: inizialmente i membri del Country Club sono descritti come degli snob annoiati e indisponenti ma poi si dimostrano anche, a modo loro, gentili e “accoglienti” con la famiglia Simpson. Ad ogni modo, Marge sembra determinata a entrare a far parte di “quel mondo” fino a quando, sul più bello, si accorge che le sue ambizioni l’hanno distolta dai vecchi, semplici, genuini valori della famiglia. Se l’episodio finisse qui, coi Simpson che disertano la serata di gala per andare al fast food, saremmo di fronte a un normale esempio di elogio-della-famglia della serie meglio-poveri-ma-felici-che-ricchi-ma-stronzi o giù di lì. Ma così non è. Perché in realtà intanto, al Country Club, la “Springfield Bene” era pronta ad accogliere i Simpson tra i veri e proprio soci e aveva addirittura preparato un party di benvenuto con tanto dolci, champagne e striscioni di benvenuto.
Come si vede, non c’è una precisa presa di posizione e il risultato è destabilizzante: si propongono dei valori e delle prese di posizione morali per poi (e infine) indebolirli tra rovesciamenti e controrovesciamenti. Il che ci riporta all’iperironia e al suo humour “distaccato, incentrato meno su un condiviso senso dell’umanità e più su un atteggiamento da più furbi [e intelligenti e smaliziati Ndr] degli altri” (Carl Matheson).
Un’altra caratteristica (anch’essa, mi si conceda, molto postmoderna) dei Simpson è il massiccio ricorso alle allusioni e alle citazioni. D’altra parte, come dice Matt Groening, “dopo aver studiato la semiotica di Attraverso lo specchio o aver guardato tutti gli episodi di Star Trek, devi farli fruttare”. E così i Simpson pullulano di una pletora di riferimenti che ci procurano un gran bel piacere estetico. William Irvin e J.R. Lombardo ci spengano perché. 1) la comprensione di un’allusione implica il piacere che proviamo quando riconosciamo qualcosa di familiare; 2) ci sentiamo “parte del processo creativo”, inserendo noi i tasselli mancanti; 3) l’allusione ha una componente ludica, è un invito a giocare; 4) – forse il più importante, nel caso dei Simpson, – l’allusione coltiva l’intimità e forgia la comunità. La “comunità simpsoniana”, ovviamente.
I Simpson, però, hanno visto bene di eliminare la componente elitaria insita nel meccanismo di riconoscimento della citazione ricorrendo a due ottimi “stratagemmi”.
Primo: Distribuendo le citazioni su più livelli. Non si tratta solo della, pur massicciamente presente, componente – ehm – “postmoderna” della citazione simpsoniana, ossia il suo frullare Alto e Basso, Colto e Pop(olare) senza soluzione di continuità né gerarchizzazione. Dai Puffi a Bosch, da Star Trek a John Huston passando per l’Orso Yogi e Allen Ginsberg, nei Simpson si trova di tutto. Si trovano anche, però, diverse modalità di riconoscimento. Se ci sono alcune citazioni evidenti e immediate (Bart che ruba il vasetto degli spiccioli a Homer è evidentemente l’Indiana Jones de I predatori dell’arca perduta) ce ne sono altre che richiedono una passione un po’ più “seria” per la materia trattata (la plongée di Bart che allunga le braccia per afferrare i due pasticcini rimanda a quella di Arancia Meccanica in cui Alex, dopo la cura-ludovico, cerca di toccare i seni della modella). Ce n’è per tutti i gusti, insomma, e più o meno a tutti i Simpson “regalano” il piacere del riconoscimento allusivo, oltre a qualche vera e propria chicca (come sentire la viva voce diThomas Pynchon che doppia nientemeno che se stesso!).
Secondo: Le citazioni nei Simpson non sono mai “distruttive”, nel senso che non sono affatto strettamente necessarie a godersi lo Show ma “qualcosa in più” da offrire gentilmente ai più fortunati e/o meritevoli. Quando vediamo Sideshow Bob appena eletto sindaco di fronte alla sua gigantografia in b/n possiamo o non possiamo cogliere il rimando a Citizen Kane ma certamente ci facciamo un’idea delle manie di grandezza del personaggio. E così via. D’altra parte, quanti, specie in Italia, hanno letto e assai apprezzato Verso occidente… di Wallace a digiuno di Barth (con l’H) e del suo Lost in the funhouse?