Biografico, Drammatico, Recensione, Thriller

THE SILENT MAN

Titolo OriginaleMark Felt: The Man Who Brought Down the White House
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata103 min
Sceneggiatura
Ispirato al fatto di cronaca
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Washington, 1972. Mark Felt è il vicedirettore dell’FBI, presso cui presta servizio da trent’anni, quando il suo capo, il temibile J. Edgard Hoover, muore lasciando vacante la poltrona di direttore. A modo suo, Hoover era un architrave del sistema e la sua assenza scardina un sistema di potere, un’architettura istituzionale ben codificata. Tantopiù che Felt, delfino ed erede designato di Hoover, viene invece bypassato in favore di Pat Gray, legato a doppio filo con la Casa Bianca.

RECENSIONI

THE SILENT MAN

Partiamo da un dato di fatto: a nessuno piacciono gli spioni. Eppure la storia sociale è costellata di momenti critici in cui il deus ex machina si personifica in individui-catalizzatori che, comunicando verità scomode al mondo, hanno coadiuvato al cambio paradigmatico. Cosa accomuna Edward Snowden, Donnie Brasco e Julian Assange: shadow men capaci di scuotere le fondamenta dello status quo politico e culturale, con le loro rivelazioni. Per alcuni semplici spifferoni, per altri eroi nazionali; una rivisitazione moderna del Davide e Golia, in cui un uomo solo sfida l'intero establishment. Tra la lunga lista di infiltrati celebri spunta anche lo pseudonimo Deep Throat, Gola Profonda (si sconsiglia fortemente una ricerca Google con queste parole chiave!). Forse non il più conosciuto, il maggiormente memorabile o fascinoso, né quello più stimato o inserito nell'immaginario collettivo, eppure... Eppure Peter Landesman ci ha voluto fare un film. Con The Silent Man il poliedrico regista/ produttore /giornalista/ romanziere, alla sua terza fatica dietro la macchina da presa, opta per un dramma biografico dell'era nixoniana incentrato sulla figura di Mark Felt: G-man e braccio destro di J.Edgar Hoover, primo informatore dello scandalo Watergate. Film contraddistinto da una rigida cronologia: la narrazione si apre con l'annunciata morte di Hoover, e le speculazioni di gabinetto sul possibile successore. Tutti pensano tocchi al vicedirettore Felt, ma il favorito viene spodestato da Bill Sullivan, grazie alla sibillina intromissione della Casa Bianca. Inizia da qui una lenta carrellata di episodi sconnessi tra bisbigli in burocratese, sguardi torvi ed intensi silenzi negli uffici. Si racconta il dissidio interiore di Felt, un uomo ostracizzato da un FBI asservito alla presidenza repubblicana, ma ancora leale alla nomea dell'istituzione. Cosa ha spinto il burocrate a mettere a repentaglio la sua carriera, denunciando gli ombrosi altarini governativi? Questo l'enigma da sviscerare, o meglio, questa l'aspettativa comune. Invece ci si trova di fronte ad un biopic insipido, dallo script sciatto ed il ritmo spossato. L'auspicio, quello di un thriller-politico dai toni scuri ed ammalianti, la (dura) realtà: un disordinato collage di storia americana contemporanea.

Tra il fumo di sigaretta e l'orribile moquette anni '70, aleggia un clima di insicurezza: dramma, spunti biografici, glimpse documentaristici e parentesi romanzate si accavallano goffamente per 100 minuti. Il risultato è un conspiracy thriller senza cospirazione, ma con tanta paranoia. Montaggio e screenplay acuiscono l'artificiosità della narrazione: l'occhio filmico si distanzia a tal punto dalle vicende rappresentate, da vanificare ogni possibile empatia o introspezione spettatoriale. Persino il subtheme di Felt da "uomo dietro la maschera" ed il complicato rapporto con la figlia maggiore, non riescono a risollevare l'interesse, riducendosi a forza centrifuga accessoria e dispersiva. Un rigido e parruccato Liam Neeson si assume onere ed onore di portare Gola Profonda su grande schermo: la star degli action, poco a suo agio in abito gessato, sembra rimpiangere i tempi in cui i terroristi li fermava a cazzotti, e non da dietro una scrivania. Interpretazione solipsistica riassumibile in un tris di sospiri profondi, pigli corrucciati e voce sommessa. Ma la gravitas innata e magnetica dell'attore irlandese limita l'impatto dei danni, altrimenti disastrosi. Poco altro da dire sul cast, se non rinnovare il rammarico per la prova sottotono di Diane Lane, nei panni della signora Felt: colpa da attribuire ad una caratterizzazione a grezzo e bidimensionale che la riduce a moglie alcolizzata, cinica ed egoista. Si fa quel che si può. Peter Landesman ha commesso un errore di valutazione: con Trump alla Casa Bianca ci si aspettava forse maggior entusiasmo per uno spaccato politico sulla classe dirigente americana corrotta ed insabbiatrice. Ma Donald non è Nixon, e certo The Silent Man non è Tutti gli uomini del presidente. Il cv del regista ha influenzato la stesura del copione, più adatto alla carta stampata che al grande schermo. I tempi, le cesure, la mancata amalgama tra le sezioni e l'assenza di un trait d'union destinano il film al dimenticatoio. (Sonno) Profondo.