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TRAMA
Quattro amici, Ruhel, Asif, Shafiq e Monir, partono dall’Inghilterra per il matrimonio di uno di loro in Pakistan. Dopo una serie di vicissitudini tre di loro vengono arrestati dalle truppe americane e portati nella base di Guantanamo. Ed è soltanto l’inizio del loro dramma._x000D_
RECENSIONI
Dopo il promettente esordio Butterfly Kiss, l'interessante approfondimento realistico di Go Now e il cupissimo ed eccellente Jude, Winterbottom ha percorso molte strade, nessuna con risultati apprezzabili: ambizioni confuse, mestiere scaltrito ma burocratico, provocazioni più sorde che deflagranti. Tuttavia, fra una commedia sentimentale, un incubo orwellian-dickiano e un dramma erotico il regista è andato tracciandosi un sentiero espressivo apertamente polemico contro le viltà e le ipocrisie occidentali (non ne mancano certo gli argomenti), al quale non si può non riconoscere una rozza ma asciutta efficacia.
Sul piano formale, uno degli elementi che più avevano suscitato clamore ai tempi di Benvenuti a Sarajevo era stata la crasi fra segmenti documentaristici e invenzione narrativa; in un'epoca votata a mescolare gaudiosamente ogni cosa, l'espediente (peraltro annoso: vi si fa ricorso da sempre, nel cinema come in letteratura) fu presto digerito, e l'inopinata recrudescenza di purismo che aveva colpito molti critici scemò, lasciando nei maliziosi il sospetto che le autentiche ragioni dell'ostilità fossero state altre. Anche Road to Guantanamo, secondo uno schema ormai collaudato, intreccia i piani del discorso: la testimonianza, la documentazione dal vivo, la rievocazione narrativa (che finge il documentario attraverso la tecnica di ripresa, la fotografia, il sonoro); in altri termini, intervista, reportage di guerra o d'inchiesta, fiction realista. Questa simulazione di cronaca non si propone tanto di sostituire il giornalismo televisivo con la sua guerra virtuale e gli innocui fuochi d'artificio, quanto di denunciarne – per pura forza di opposizione – le drammatiche carenze e aberrazioni.
Il montaggio serrato conferisce un ritmo teso ma non enfatico; il pedinamento dei protagonisti funziona senza troppi strascichi o compiacimenti; la sollecitudine etica non scade in pietà a buon mercato grazie all'asprezza d'una regia di stile povero quanto si vuole, ma tale da evitare cadute nell'emotività d'occasione per aver asciugato le ridondanze con la rapidità e l'urgenza del racconto; le continue vessazioni degli aguzzini e il martellio ossessivo, sfinente degli interrogatori mostrano la soffocante stretta del potere sulle proprie vittime: umiliate, torturate, terrorizzate, offese. A tanto si giunge scientemente, quando si vuole che un corpo parli; nel senso che confessi, ma che diventi anche, nella sofferenza della tortura, un'affermazione dell'inevitabile supremazia del carnefice. L'omologo del trattamento riservato al (presunto) nemico in catene sta nello scatenamento della paura fra i sudditi; due diverse forme di tortura, cioè della suprema, perversa razionalità del potere.
Nell'eloquenza dei fatti narrati, i commenti sarebbero superflui; il regista li omette, perciò anche nella sferzata politica il film riesce meglio di opere recenti: le facce beffarde del presidente USA e del suo ministro della difesa compaiono due volte, non inflazionando il film con la loro presenza; quella stolida del premier inglese compare poi una volta sola, nel ruolo del servo; è sufficiente accostare quelle facce e le parole che esse pronunciano alle immagini di Guantanamo (ricreate ma attendibili, oggi confermate nella loro sostanza dagli stessi carcerieri); non servono i commenti gaglioffi, le tirate patriottiche, le sparate patetiche o demagogiche d'un Moore per capire da quali bugiardi e criminali ci siamo fatti abbindolare.
