Drammatico, MUBI, Recensione

THE RIVER

Titolo OriginaleOzen
NazioneKazakistan, Polonia, Norvegia
Anno Produzione2018
Durata108'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

In un remoto villaggio kazako vive una famiglia in cui vi sono cinque fratelli maschi. Il più grande, Aslan, fa le veci del padre: è responsabile di tutto il lavoro da fare e assegna i compiti ai più giovani. Giusto e umano, Aslan è comprensivo con i fratelli quando sbagliano e si assume le loro colpe di fronte al padre. Un giorno li porta al fiume: è un momento di felicità, perché il fiume è abbastanza profondo da poterci nuotare. Da allora la vita cambia. I fratelli svolgono più diligentemente i loro compiti quotidiani, mentre il fiume assume un ruolo centrale nelle loro vite.
Un giorno arriva al villaggio un misterioso visitatore: Kanat.

RECENSIONI

È un peccato che i film di Emir Baigazin abbiano avuto così poca visibilità in Italia. E non lo diciamo solo perché questo The River porta a compimento la “Trilogia di Aslan” (dal nome del protagonista che pur non essendo mai lo stesso personaggio nella stessa storia, da un film all’altro continua a crescere), ma perché non è usuale vedere un cinema lontano dal puro formalismo eppure così cosciente della messa in scena e attento al piano visivo.
Il film narra di cinque fratelli che vivono con i genitori in un remoto villaggio. Il padre, che li ha isolati dal mondo e dalle sue tentazioni, li costringe a lavorare a condizioni durissime e ha investito Aslan, il maggiore, del compito di sorvegliare il lavoro e punire i minori, se necessario, perché non ricevano da lui stesso una lezione più dura. Questo stato di cose alimenta sentimenti di odio e vendetta nei confronti del genitore prima, e di Aslan poi, quando questi cesserà di coprire i fratelli. Lo stato delle cose subisce uno scossone allorquando giungerà dalla città un cugino, figura che rappresenta non solo l’immagine di una condizione e di un luogo alternativi alla terra desolata in cui i cinque vivono, ma anche di una contemporaneità (la tecnologia, la virtualità, il reale che si specchia nel suo doppio digitale) che non li ha mai riguardati, abituati come sono stati a uno stile di vita arcaico. A quel punto anche la leadership di Aslan viene a vacillare.

Tutto giocato, come i precedenti, su minisipari teatrali, entrate in scena innaturali, su quadri geometrici, quando non simmetrici (dunque ostentatamente artefatti), su pochi colori neutri (l’azzurro del cielo, il grigio e il bianco degli interni, il giallo smorto della terra e delle vesti dei ragazzi - quasi una tenuta carceraria -) e su un uso liricizzante delle musiche, il film adotta queste scelte formalistiche per rendere in termini figurativi le dinamiche fondamentali sulle quali si fondano i rapporti dei personaggi. Lo spazio è allora concepito come un campo di forze: i cinque sono prima un corpo unico, unito per il conseguimento del medesimo obiettivo; poi disgregati, dopo la scomparsa nel fiume del cugino, che li conduce in un aperto conflitto fatto di delazioni, ricatti e segreti svelati; poi di nuovo compatti, accomunati da un intento comune, ma definitivamente incattiviti. Una vera e propria parabola sulla natura umana (il regista ha trovato ispirazione figurativa nelle rappresentazioni delle vetrate delle cattedrali cristiane), sulle sue contraddizioni, sul paradosso del senso di colpa (la produttività dei fratelli si lega ad esso), sulla famiglia come nido pieno di risentimento che qui cresce all’ombra di uno spettrale, simbolico spaventapasseri e su quello che è il vero leit-motiv della trilogia, già messo in evidenza dai precedenti Lezioni di armonia e Wounded Angel: la perdita dell’innocenza e l’accettazione del Male come tappa ineludibile nel cammino della crescita.

Premio alla regia nella sezioni Orizzonti della mostra veneziana.