Horror, Recensione

THE RED SHOES

Titolo OriginaleBunhongsin
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2005
Genere
Durata103'
Tratto dadalla fiaba di Hans Christian Andersen
Fotografia

TRAMA

Sul ponte sventola bandiera bianca: ho capito che non è un remake dell’omonimo film di Powell-Pressburger, che ci sono un paio di scarpe fucsia che è meglio non rubare al legittimo trovatore e un paio di volte, tra un flashback e l’altro, mi sembra di aver visto Sadako. Di più non saprei dire…

RECENSIONI

Questa, nella sua odiosa approssimazione, è tutta l’”introduzione” che The Red Shoes si merita. Potremmo aggiungere che il film rappresenta un nuovo capitolo della serie coreana cose maledette (The Wig, Phone, Cello) ma sarebbe già troppa grazia. Il prologo, in realtà, lasciava sperare in qualcosa di decoroso: fotografia livida, inquadratura geometrica, qualche fuorifuoco interessante e una bella amputazione sanguinolenta che rimanda dritta ad Andersen e alle sue Scarpette Rosse. Ma il germe della boiata, a ben vedere, c’è già: la soggettiva delle scarpe non è esattamente un tocco di classe e il fatto che le red shoes siano fucsia non lascia presagire il classico “nulla di buono”, che arriva puntuale e inesorabile; il film si configura ben presto come micidiale mix di stereotipi orrorifici orientali (la casa, il fantasma vendicativo eccetera) e nonsense narrativo, capace di portare alle estreme conseguenze la nota pratica del “sobbalzo” (irruzione/apparizione improvvisa di un qualcosa all’interno dell’inquadratura accompagnata da meschina sparata audio). Non che il povero Yong-gyun Kim sia completamente da biasimare… accortosi troppo tardi di aver scritto una sceneggiatura sostanzialmente inutilizzabile, deve aver visto nello scossone reiterato a intervalli regolari l’ultima spiaggia libera per dare un senso all’esserci dello spettatore in sala. E’ ancora presto per dire se The Red Shoes avrà sulla succitata chincaglieria registica horror lo stesso impatto teorico che Lady in the Lake (1946) ebbe sull’utilizzo della soggettiva nel cinema[1], ma certo rappresenta già, hic et nunc, un temibile monito per qualunque regista intenzionato a far paura al suo pubblico sperando di cavarsela con poco. Nel contesto davvero imbarazzante del tutto, si nota comunque l’intenzione di Yong-gyun Kim di girare il suo film con una certa eleganza, prestando attenzione al taglio delle inquadrature e alla gestione del punto di vista, curando il movimento di macchina e accarezzando pure qualche ipotesi di poesia visiva. Ho scritto “l’intenzione”.