TRAMA
Baltimora, 1849. Un serial killer commette degli efferati omicidi ispirati alle opere di Edgar Allan Poe.
RECENSIONI
La misteriosa morte di Poe è l’innesco: lo stato confusionale, i deliri, il nome “Reynolds” pronunciato senza apparente motivazione, l’assenza di un certificato di morte ufficiale. Tutti elementi storicamente accreditati che, in effetti, potevano dare adito a una drammatizzazione cinematografica non del tutto peregrina. Così come l’idea di utilizzare i racconti più noti del Nostro come tessuto connettivo: soluzione ovvia, certo, ma teoricamente giustificata e non biasimabile in sé, se così si può dire. Poi c’è l’atto pratico. All’atto pratico, la coppia Livingston-Shakespeare fornisce un retroterra esemplificativo ma distruttivo al/del mistero originario. Se ci si dà all’allostoria, e si inserisce una serie di omicidi ispirati alle opere di Poe all’indomani della morte di Poe, e ci si inventa che Poe aveva partecipato attivamente alle indagini, e si aggiunge che sul giornale locale lo stesso Poe aveva offerto coram populo la sua vita in cambio di quella dell’amata presa in ostaggio dall’ammiratore/serial killer, beh, a quel punto la sua morte diventa assai meno misteriosa. E chiunque, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, doveva quantomeno intuire che, forse, “Reynolds” poteva essere il nome dell’assassino o qualcosa del genere. No? Si finge, insomma, di spiegare un enigma che, una volta spiegato, perde la propria enigmaticità originaria, creando un paradosso logico dai risvolti imbarazzanti. Quando le fondamenta non sono solide – un eufemismo – non stupisce che l’edificio pulluli di crepe. Il film di McTeigue fatica infatti a costruirsi una propria identità solida e autosufficiente. Si possono identificare due linee guida: 1) l’“omaggio” allo scrittore di Boston, ma non si va molto oltre la vulgata più ovvia (La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo, I delitti della Rue Morgue, Il cuore rivelatore, c’è tutto quello che chiunque sia stato adolescente ha letto e diversamente amato) e una generica poe-ianità della struttura generale, decisamente più “cercata” che realmente “trovata”; 2) il classico serial thriller (diciamo à la Silenzio degli innocenti), veste nella quale The Raven si rivela oggetto goffo e prevedibile, incapace di costruire vera tensione. Il protagonista caricaturale e anodino, che (si auto)cita un po’ a vanvera, non incoraggia l’empatia spettatoriale, mentre la vicenda stessa ha un andamento macchinoso, con il “passaggio a vuoto” e la “lungaggine” che diventano rapidamente i tratti distintivi dell’operazione e i riferimenti testuali che si fanno viepiù pretestuose esigenze di script. A questo bisogna ricordarsi di aggiungere i momenti narrativamente indecidibili e le vere e proprie falle: tutta la sequenza del rapimento di Emily è friabile e lacunosa; nel finale, non si capisce perché Poe, per raggiungere la stessa Emily, è costretto a distruggere l’ingresso di una botola alla quale Reynolds accedeva quotidianamente. McTeigue si conferma regista restio a marcare l'enunciazione (la contre-plongée lunare in apertura, che diventa plongée, il movimento di macchina che 'orizzontalizza' l'interno della cassa, poco altro) e più propenso ad assecondare la sceneggiatura. Ma quando la sceneggiatura è questa...
James McTeigue torna all’esordio: il suo uomo mascherato, Fantasma del Palcoscenico al ballo in maschera, però, non scrive una V per Vendetta, non vuole risvegliare la coscienza di un paese, ma solo quella di uno scrittore, in difficoltà, che ammira. Per farlo, lo getta nel pieno orrore dei suoi racconti e lo sfida, in nome dell’amore, a riprendere la penna in mano. È una Musa mortale, metatestuale e, forse, solo un “Sogno nel sogno” (peccato che l’opera non sfrutti appieno questa ambiguità). Raccontata così, la trama testimonierebbe un’opera intrigante e la consacrazione di un nuovo autore, giacché anche il poco notato Ninja Assassin, pur con testo affatto adulto, confermava la predilezione di McTeigue per il romanticismo, i valori cavallereschi, il sangue versato in nome dei moti di cuore, il legame indissolubile fra amore e vendetta (nel caso di “The Raven”, la vendetta è quella dell’Arte nei confronti dell’Amore). Invece viene confermato solo il talento pittorico di una regia che cura ogni “quadro” come fosse un graphic novel, con punti di inquadratura d’effetto e complessa composizione fotografica. Le idee degli sceneggiatori sono banali: mettere lo scrittore al centro di un intrigo basato sui suoi racconti, inventare un intero brano di vita su di un personaggio famoso e (peggio ancora) un serial killer che uccide in modo pittoresco e duella a rebus con il protagonista. Il regista pecca proprio nel disegno di Poe, indeciso fra commedia sarcastica (all’inizio, con il suo fare indisponente e critico, Poe ricorda addirittura Woody Allen), maledettismo d’autore ed eroe d’azione. La parte finale, in cui sono molto più elaborati il gioco realtà/sogno e l’allegoria dell’assassino come Musa, dimostra che dormendo (prima) di meno, gli sceneggiatori avrebbero sfruttato meglio le potenzialità del (meta)testo.