TRAMA
Un macchinista ossessionato dalla morte di una suicida, una giovane lettrice universitaria che ha perso l’amore: breve incontro.
RECENSIONI
Al capolinea di una linea ferroviaria e- così, per facilitare la leggibilità della metafora- in terra di confine, si incrociano i destini di due persone giunte al termine di una corsa, al varco di un limite. Lei, lettrice universitaria laureata in letteratura tedesca, è spaesata dinnanzi alla fine dell’amore con il proprio professore di riferimento, che le preferisce la monotonia del domicilio coniugale. Lui, macchinista, affronta il peso della morte di una (presunta) sconosciuta, suicidatasi gettandosi sui binari del convoglio da lui guidato. Il loro breve incontro sublimerà i rispettivi drammi in lacrime e parole, elementi di uno struggente, semplice quanto agognato, atto comunicativo. Piccolo saggio di equilibrio narrativo, The railroad, dissimula le evidenze strutturali del melò in una rara attenzione alla descrizione realista: come l’elementare e riconoscibile apparato simbolico¹ , le simmetrie tra i personaggi - che siano giocate sulla dicotomia eros/thanatos ², o, più banalmente, sulla speculare struttura familiare ³ - si stemperano nella veridicità di ruoli e situazioni, rappresentati nella mediocre, tragica e ridicola, banalità del quotidiano (valga per tutte la scena in cui Hanna, la protagonista, confessa l’invidia per il lavoro stabile degli amici, mentre questi si lasciano andare a stantii doppi sensi e sterili frasi di circostanza). La gestione del sapere spettatoriale è la chiave di quest’opera pudica, laconica, delicatamente rassegnata: Park Heung Sik rivela gradualmente il passato recente dei protagonisti, sino a rendere l’osservatore, sul finale, più cosciente degli stessi, consapevole di fatalità che i personaggi- rianimati di converso dal confronto tra le rispettive solitudini- non hanno ancora realizzato: questo scarto, insieme allo scheletro del marchingegno narrativo, incombe sulla realtà dei personaggi, come un disegno già scritto a cui è impossibile sottrarsi e le cui linee di irrimediabile durezza possono essere ammorbidite, per qualche istante, solo dalla vana gioia del contingente. Da lacrime e parole, ad esempio. Kim Kang-Woo premiato come miglior attore del concorso.
[1] La già accennata metafora ferroviaria, ma anche certe derive compositive, come il ricorso a linee verticali a dividere simbolicamente i personaggi
[2] Se il suicidio della ragazza rappresenta per il protagonista, inconsapevole, la fine dell’amore, per la protagonista la fine dell’amore nasconde anche l’aborto di un figlio.
[3]Il protagonista ha un padre che costantemente gli ripete: “Sposati!”. La protagonista ha una madre che si comporta nel medesimo modo.

La distanza come espressione sentimentale: è questa la limpidissima chiave stilistica di “The Railroad”, opera seconda di Park Heung-sik presentata al 25° Torino Film Festival, dove ha ottenuto due importanti riconoscimenti (il premio per il miglior attore al protagonista maschile e il Premio Fipresci). Non si tratta della trita equazione “distacco = pudore”, ma della tensione emotiva dello sguardo, della sua intensità “metrica”, della sua disponibilità a spostarsi lungo un continuum affettivo che va dall’osservazione rarefatta all’aderente partecipazione. Uno spettro ottico-emotivo che varia dalla fredda contemplazione alla struggente condivisione. D’altro canto la scrittura brilla per esemplarità: i personaggi non si svelano parlando, si rivelano per mezzo dei comportamenti, delle azioni presenti e passate. Disseminate lungo il tragitto, briciole sparse del loro vissuto si accumulano fino a comporre un toccante ritratto di due solitudini che incrociano i loro destini in un frangente di inaspettata, commovente intimità. Man-soo (il premiato Kim Kang-woo) è reduce da un tragico incidente sul lavoro che lo ha profondamente sconvolto, Hanna (Sohn Tae-young) è stata aggredita dalla moglie del suo professore-amante, che ha scoperto il tradimento del marito leggendo le sue mail. Scombussolati e afflitti da questi traumatici eventi, i due si sbronzano (separatamente) e salgono barcollanti su un treno della linea Gyeongui (la linea occidentale da Seoul a Shin-ui-joo via Pyongyang), precipitando in un sonno tanto profondo quanto turbolento: schegge di memoria si riaffacciano improvvise a turbare il sopore alcolico. Entrambi si portano dentro segreti sensi di colpa e opachi segni di morte (di un’occulta suicida lui, di un aborto altrettanto celato lei). Soltanto raccontandosi riusciranno a sciogliere i nodi e i rimorsi che li tormentano. Il focolaio tematico del film è rappresentato dal superamento della separazione: i binari professionali, sentimentali e sociali che condannano gli individui a non incontrarsi mai devono essere fusi e rimodellati in uno struggente abbraccio amoroso. È chiara, al di là della grammatica emotiva del mélo, l’analogia con la situazione politica coreana: una nazione dolorosamente divisa in due stati separati e ostili (del resto nel film è tracciato un esplicito parallelismo con la riunificazione delle due Germanie e con la
realizzazione del candido sogno professionale di Kang-woo: guidare un tram alla luce del sole). L’apparato metaforico tuttavia non appesantisce né dirotta “The Railroad” verso sterili derive geopolitiche, al contrario mette tutte le aggregazioni simboliche al servizio dell’intensità drammatica, amplificando paurosamente il precipitato sentimentale del film in un finale così generoso e liberatorio da mettere i brividi. Di una cristallinità spaventosa. Visivamente Park Heung-sik è di un’essenzialità glaciale, quasi assiderante nel suo rigore: sole immagini, dialoghi minimali, spiegazioni zero. Un pedinamento dei personaggi che è insieme presentazione e sottrazione del superfluo: l’ubriachezza, manifestazione etilica del male di vivere, è soltanto una borsa a tracolla che scivola dopo l’urto con un passante, un’andatura incerta stretta in un cappotto di cammello che trascina un trolley. L’apertura finale di Kang-woo è un monologo girato di spalle, non una confessione ricattatoria. Piccoli tocchi, non colpi di grancassa, ma tocchi roventi che marchiano a fondo. Un film sulla fragilità, soggetto meno frequente di quanto si immagini.
