TRAMA
RECENSIONI
Il passato al presente (The Post), il futuro al passato (Ready Player One). Nell’arco di due mesi, Steven Spielberg sarà riuscito a cristallizzare quella che era oramai un’evidenza poetica e teorica: il suo passatismo “attuale” e attualizzante; una nostalgia non languida ma energica ed irriverente, ironica e affermativa, futurista; la fuga altrove (passato storico, futuro virtuale) come condizione originaria e generativa per parlare, indirettamente, del presente, del “qui”. E proiettarci in un futuro meno oscuro, un “luogo” magico dove il cinema esiste (ancora) e resiste; un cinema capace di coniugare azione, dizione e reazione e di costruire un racconto spedito e stringente. Il passato di Spielberg non parla più (“soltanto”, come in Lincoln e Il Ponte delle spie) del passato al presente, ma intende proiettarsi nel futuro. È pura maiueutica del divenire, di un avvenire che si spera palingenetico. È un cinema testimoniale e resistente; che rinvigorisce il classico trasformando la sua sedicente “trasparenza” in necessità non più (solo) strutturale ma strutturante un pensiero, una riflessione cogente sul presente, da trasmettere alle future generazioni. Il discorso “classico” non è dunque più neutro o neutrale (ammesso che lo sia mai stato), ma precipuamente politico. La forma deve certo essere al servizio del racconto ma non ad esso asservita. Per questa ragione la macchina da presa spielberghiana fugge, insegue, si innalza, si arresta per contemplare e poi di nuovo scivolare via. Provate a prendela.
Il tempo fugge e la macchina da presa pare inseguirlo. The Post non è un film “urgente” ma un film en abyme su cosa significhi raccontare nell’urgenza. Come reagire tempestivamente alla violenza (l’occhio del cinema che si immerge nel fango della guerra per osservare, assorbire, annotare, trasmettere), al pessimismo, al negazionismo e, esteticamente, al digitale, all’incorporeo, all’impalpabile? Facendo del racconto e del cinema strumenti di offesa (vs. il Potere di ieri, di oggi, di domani) e di difesa (del classico, della pellicola, del “vecchio”). Arma più potente in mano ai resistenti, il cinema ritrova in The Post il nitore e la “trasparente opacità” del classico: nessuna inquadratura che non sia significante, nessun passaggio che non sia giustificato narrativamente o simbolicamente. Invece di mitizzare il giornalismo, in The Post Spielberg demistifica il Potere (la silhouette di Nixon, patetico, infantile, che reagisce stizzito come se gli avessero rubato un giocattolo) e traduce l’idealismo americano in realtà cinematografica. Il cinema è più forte del Potere, perché a differenza del Potere non ha paura della verità. Anzi, ci illude che una verità sia ancora possibile.
La novità più rilevante rispetto ai precedenti e simili War Horse, Lincoln e Il Ponte delle spie risiede nell’inedita dialettica interna che l’autore e gli sceneggiatori riescono ad instaurare. La parola è sempre manipolante “a fin di bene” (i fiori della retorica, effetti più che speciali), ma è il cinema in sé a diventare tema e a trovare una sintesi tra gli opposti. Da un lato la fragile umanità di Katharine Graham: ragionevole, sobria, mater fragile ed indecisa (quasi un’ex ozoniana “potiche”), in rosa e rosa dal dubbio. Dall’altro l’esuberanza infantile del redattore Ben Bradlee, alla ricerca della (sua) arca perduta (la scatola/vaso di Pandora contenente le carte), che, come il regista, agisce anche per divertirsi (“Che divertimento” dice alla sua segretaria appena ricevuta in redazione una parte dei “papers”). L’opposizione è trattata con leggerezza, grazia, ironia. La macchina da presa funge tra tramite, da ponte, da collante. Gli opposti si confrontanto ma è Lei a dire o captare l’ultima parola (Lei: Katharine / Lei: la macchina da presa). L’acmé della lacerazione femminile coincide in effetti con quella che è forse la migliore sequenza girata dall’autore negli ultimi decenni: Katharine, sola in una stanza, collegata telefonicamente a voci maschili che la circondano, che la assediano; la macchina da presa si innalza, ruota attorno al personaggio: la donna è accerchiata. Poi l’occhio meccanico scende, e accarezza il volto della sublime Meryl: “Let’s do it!” Chi ancora oggi nutre dubbi sulla grandezza dell’autore de L’Impero del sole, si accontenti di contemplare in silenzio questo pezzo di cinema sommo. Il giornalismo, la stampa, la rotativa, diventano in The Post sublime metafora della missione e funzione del cinema: raccogliere frammenti di senso nascosti e/o scoperti (le pagine sparpagliare dei secretati “Pentagon Papers”), selezionarli, assemblarli e inviarli alla stampa, in cabina di proiezione. La rotativa è come la pellicola che scorre: 24 immagini al secondo, la verità 24 immagini al secondo. Una verità talmente potente da far tremare il pavimento. E il Potere.
È il cinema, bellezza. E per fortuna il Potere non può farci niente.
Non a caso è co-sceneggiato da Josh Singer, scrittore di West Wing, autore di Il Quinto Potere (sui documenti top secret di Assange) e Il Caso Spotlight (come il Boston Globe scoperchiò la pedofilia nella chiesa cattolica): più che Steven Spielberg, è lui a dare la cifra personale al film, nella descrizione di fatti di cronaca che inneggiano alla libertà di pensiero e stampa. Un artista talentuoso come Spielberg, in questi casi, mette il pilota automatico, al servizio degli interpreti (Meryl Streep, al solito, dipinge un carattere superbo, con nulla di manierato) e coadiuvandosi con il mestiere dei collaboratori abituali. Il risultato ha l’imprinting di un classico del genere giornalistico (vedere L’Ultima Minaccia di Richard Brooks, con dilemma simile), dove rinvenire uno scoop e raccontare il prima e il dopo rifacendosi ai principi della Costituzione; ma è anche, per gli autori, un modo di spezzare una lancia per il genere femminile, a lungo discriminato nel pregiudizio che non fosse all’altezza in ruoli prettamente maschili. Etica e coraggio combattono la politica menzognera e c’è un curioso aggancio finale, che presenta la stessa scena dell’inizio di Tutti gli Uomini del Presidente (con voce di Nixon originale, come da nastri: la morale è che il potere va sempre smascherato, perché “È la stampa, bellezza”). Partecipe la dedica del film a Nora Ephron, regista/sceneggiatrice scomparsa da poco e sposata al giornalista Carl Bernstein, del Washington Post, che scoprì lo scandalo Watergate.