TRAMA
Un misterioso uomo siede sempre allo stesso tavolo di un ristorante, pronto a esaudire i più grandi desideri di otto visitatori, in cambio di compiti da svolgere. Quanto saranno disposti a spingersi oltre i protagonisti per realizzare i loro desideri?
RECENSIONI
The Place non riprende soltanto la serie tv Booth at the End replicandone la struttura e concentrandone la durata, ma ossequia una delle soluzioni narrative più ricorrenti di questi anni: l’allineamento della condizione dello spettatore a quella di un soggetto ascoltatore che è parte della rappresentazione. The Place è per l’appunto Il Posto in cui le storie non si svolgono, ma si raccontano. Di quanto accade fuori dal Posto non vediamo nulla, possiamo solo supporre che i racconti che ascoltiamo rispondano a eventi reali o che aderiscano perfettamente, nella sostanza, alle parole scelte per descriverli. Più di ciò che si racconta, conta chi lo fa, come lo fa e in che rapporto è con chi sta ascoltando, perché è in questi elementi che risiede la narrazione di primo grado, ovvero quello che stiamo guardando.
In Treatment, in questo senso, è modello insuperato in materia, perché in quella serie la questione della narrazione orale, del soppesamento della veridicità di ciò che viene affermato e della dose di impressionismo soggettivo immessa nei resoconti, è imprescindibile dal dispositivo (si parla di sedute psicanalitiche: il posto, in quel caso, è lo studio del terapeuta), così come è implicita la chiamata in causa di uno spettatore che soppesa ogni parola, avvalora o mette in discussione, giudica, dubita, crede (o non crede o crede fino a un certo punto). E lo stesso dicasi per i più recenti 13, The OA e Mindhunter (di quest’ultimo scrivo prossimamente): anche in essi alla constatazione di un’azione si preferisce la rievocazione della stessa, il suo racconto. Nel cinema gli esempi vanno dal seminale The Tulse Luper Suitcases (catalogo di narrazioni di episodi biografici che si rivelano apocrifi) al teoricissimo Nymph()maniac (che viveva, strizzandogli l’occhio, all’ombra della madre di tutte le raccolte recenti di aneddoti truffaldini: I soliti sospetti).
Tornando al film: The Place, dunque, è il posto in cui non succedono le cose, perché tutto avviene (avverrebbe) fuori di lì.
Per questo il momento più interessante del film è quello in cui l’anziana moglie del malato di Alzheimer (Giulia Lazzarini) dichiara di voler mettere la bomba in The Place: perché finalmente la narrazione esterna farebbe irruzione all’interno del luogo in cui le storie vengono narrate e le avvalorerebbe (che, a guardare bene, è lo stesso presupposto del precedente film del regista, Perfetti sconosciuti: gli smartphone portano ciò che avviene fuori dal luogo della rappresentazione - la casa in cui si svolge la cena che riunisce tutti i personaggi e i loro racconti - ad “esplodere” in quel posto). Ovviamente l’attentato rimane una pura minaccia, la constatazione dell’evento non ci è data: non sapremo mai se quella bomba è stata effettivamente costruita (una persona anziana e senza nessuna nozione di ordigni esplosivi potrebbe costruirne uno? Ecco che si riapre il discorso sulla veridicità degli eventi narrati: la valigetta contiene effettivamente una bomba?).
Dopo l’exploit di Perfetti sconosciuti (svariati i remake: presto quello francese), Genovese riprova la carta del soggetto forte traendolo in questo caso da una (brutta) serie di cui traspone pressoché integralmente impianto, scrittura e personaggi, giocando (molto meglio dell’originale, sia detto) su atmosfere, meccanismi rivelatori (che si dispiegano con efficace gradualità) e conseguente gestione dei tempi. Ma il film sconta la sua derivazione nel suo proporsi come raccolta automatica di sipari (la teatralità è già suggerita dall’unità di luogo), di dialoghi a due (eccezionalmente a tre) con cambi regolari di personaggi (pletora di primi piani - stretti e strettissimi -), infilati come perle in successione nella collana-film. L’intrecciarsi delle storie fa sì che non ci si perda nessun pezzo, che si ascolti anche l’avventore della cui vicenda ci importa meno perché comunque collegata al disegno generale: insomma, tutto l’armamentario retorico è ripiegato sull’esigenza di legare lo spettatore alla storia, facendo leva sulla sua sete di racconti (la stessa su cui si fonda la dipendenza dei seriofili). Così lo schema è sempre a vista (apertura, sviluppo, chiusura), la struttura parcellizzata evidente (le micropuntate suggerite dalle dissolvenze), gli automatismi dell’operazione annullando carne e sangue che, se ci sono in potenza, nei fatti non si riscontrano perché l’arido congegno è più forte della sostanza con la quale lo si nutre. Così di The Place si apprezza soprattutto il discorso produttivo, lo sfuggire al canone italico della commedia a ogni costo e il suo proporre alcune ricorrenze autoriali: la coralità (di qui la sfilata di attori di nome e riconoscibili) che si collega alla molteplicità di storie che si intrecciano (anch’essa consueta nel cinema di Genovese), la contemporaneità come sfondo e chiave di lettura, l’indagine sulla morale, le puntuali verifiche sul campo del politicamente corretto (se potessi sovvertire l’ordine naturale delle cose, che cosa sarei disposto a fare per ottenere quello che desidero?), il tocco fanta-mystery (fin dall’esordio: Incantesimo napoletano), l’ipotesi limite (ancora Perfetti sconosciuti).
È davvero un segno dei tempi The Place (e interessante anche per questo): un po’ Black Mirror (serie sopravvalutata, se ne esiste una) e un po’ l’ultimo Lanthimos (The Killing of a Sacred Deer visto a Cannes), stesse caratteristiche e stessi difetti dei suddetti: un innesco intrigante e inverosimile e poi, palesatasi l’idea in tutte le sue potenzialità, la tediosa gestione delle sue conseguenze, condita da toni da tragedia contemporanea e dialoghi sentenziosi. Perché questo, per l’appunto, è un film, non è una serie che delle estenuazioni tematiche sa fare (per chi vuole cascarci) sostanza, né tantomeno un corto che di folgoranti trovate può vivere (e neanche sempre: persino nei videoclip a volte non bastano a tenere botta). La tensione, insomma, è tutta posticcia perché è evidente che alla fine nessuna spiegazione verrà fornita e che quello che vincola lo spettatore alla visione è solo la curiosità di conoscere il finale di ciascun filo narrativo (capirai). The Place in questo replica anche la sterile furbizia della serie dalla quale deriva palesandosi come racconto che di misteri si nutre e che si guarda bene dallo spiegarli perché, delle due una:
a) non saprebbe come;
b) ne fornirebbe una soluzione deludente.
In questo caso, compreso che le persone si presentano al diabolico Valerio Mastandrea (ovviamente «Io credo nei dettagli») per barattare il loro desiderio con un’azione non negoziabile (buona, brutta, cattiva, orrenda, catastrofica) non c’è molto altro da sapere, perché anche l’incrocio delle storie è già dato nei presupposti (come in In treatment e come in In treatment alla narrazione deposta dagli altri all’analista fa riscontro il rovesciamento dei ruoli con l’analista che diventa analizzato: qui il personaggio interpretato da Sabrina Ferilli è il controcanto che chiude ciascun ciclo di puntate - pardon, di incontri - e focalizza temporaneamente l’attenzione sul misterioso personaggio-perno).
Quello che intriga di più, semmai, è il ruolo del personaggio interpretato da Mastandrea, non come diavolo che esaudisce un desiderio e ti chiede l’anima (si parla non a caso di un patto), ma piuttosto come raccoglitore di storie e di stati d’animo, come rigoroso analista di atteggiamenti e reazioni, il che farebbe presupporre che il potere di cui è detentore derivi da un naturale, e molto approfondito (matto, disperatissimo) studio della natura umana. Ecco, allora, che si può leggere tutto in chiave psicanalitica perché la questione sulla quale il film invita a riflettere non è tanto su dove si spinga ciascun personaggio per ottenere ciò che vuole, ma sul come la sua decisione non nasca mai da un impulso, ma da una riflessione ponderata, lucida, tormentata.