Horror, Miniserie, Recensione, Thriller

THE OUTSIDER

Titolo OriginaleThe Outsider
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2020
Durata1 stagione, 10 episodi
Tratto daThe Outsider di Stephen King
Scenografia

TRAMA

Un omicidio sconvolge Flint City, una piccola città: un ragazzino di undici anni viene trovato brutalmente ucciso, seviziato e mutilato. Tutti gli indizi a sorpresa puntano su Terry Maitland, lo stimato allenatore di baseball dei bambini. Il detective Ralph Anderson decide di eseguire un arresto spettacolare, durante una partita, davanti a tutti. Il caso sembra chiaro ma…

RECENSIONI

DEFORMAZIONE DELLA REALTÀ


Pagina/Schermo
Un omicidio che deraglia nel sovrannaturale. Per inquadrare la serie di Richard Price, già autore di The Night Of, il primo suggerimento arriva dalla modalità di adattamento eseguita sul romanzo di Stephen King: The Outsider comprime la prima parte del libro, scegliendo di risolvere l’arresto di Terry Maitland in poche battute per consegnarsi subito al fantastico. King indugiava molto di più nella zona del procedural, riportando gli interrogatori incrociati dei testimoni e il progressivo accerchiamento del sospetto, ovvero dilungandosi sulla premessa realistica per preparare la virata paranormale, che risulta spiazzante proprio perché si installa sulle coordinate del cosiddetto “mondo normale”. Al contrario Price sforbicia quella parte non per la sua scarsa cinematograficità, ma perché punta il faro verso un’altra direzione: nella caccia all’Outsider, ponendo solo brevi cenni della realtà conosciuta per poi gettarsi in fondo al pozzo. A tal scopo aggiunge alcune parti assenti nel testo, come il tentato rapimento del bambino alla festa in maschera: tutti innesti che riguardano la figura del mostro, la sua essenza, il suo movimento, cosa è capace di fare. La serie mostra subito i muscoli, rivelando una capacità peculiare di trasposizione dalla pagina allo schermo che passa attraverso la coreografia del racconto. Basti guardare due sequenze: la prima è la sparatoria davanti al tribunale, che viene mostrata a velocità naturale e poi rivista in ralenti per coglierne i particolari, risolvendo così la trovata di King di descriverla in diretta e poi farla rivivere nel ricordo dei personaggi, frugando nell’inconscio per far emergere la figura misteriosa che osserva; l’altra scena è il tentato suicidio del padre del Frankie, scandito a colpi di orologio, che monta la tensione per poi arrivare alla deflagrazione in un mirabile esempio di suspense. E le prime comparse dell’Outsider sono delegate alla figlia piccola di Terry, l’unica a vedere la creatura, che a noi non viene mostrata ma appare fuori campo, nella consapevolezza del potere inquietante riposto nelle visioni infantili – da archetipo kinghiano – e dei conseguenti resoconti. Detto più semplicemente c’è una bambina vede una creatura, ma noi dobbiamo crederci? Per gli altri è plausibile? I personaggi sono scettici e resta pericolante la linea tra razionale e irrazionale, in un’ulteriore prova della solidità della riscrittura della materia letteraria.

La terza via
The Outsider inizia come un crime e poi si dirige dritto nel sovrannaturale. Offre prove concrete e sfocia nel mondo degli spiriti: cerca assassini e trova fantasmi. Coniuga True Detective a Hill House. Parte come un’indagine a caccia del colpevole, in una detection stilizzata che segna la prima parte, e prende il binario del fantastico con la creatura che affiora gradualmente, riaprendo un dilemma atavico di genere: può la ragione spiegare tutto? Anche oggi, nel contemporaneo digitale, c’è spazio per l’Uomo nero, il Boogeyman, qui detto El Cuco che è sempre il vecchio mostro nascosto nell’armadio. Così Stephen King: «Quando arrivava la notte, l’uomo smagrito e tubercolotico della fiaba diventava più plausibile (...). Una versione con la pelle più scura di Slender Man, il babau delle ragazzine americane sulla soglia della pubertà. Lo vedeva alto e severo, con il suo abito nero, la faccia come una lampada, e un sacco abbastanza grande da poter contenere un bambino piccolo con le ginocchia piegate contro il petto». C’è un momento preciso che segnala l’abbandono del reale e l’ingresso nell’irreale: l’entrata in scena di Holly Gibney, personaggio a cui la razionalità si arrende, e gli altri gradualmente si consegnano. Se l’essenza di El Cuco viene “ufficialmente” teorizzata nel sesto episodio, già nel terzo intitolato Dark Uncle l’arrivo di Holly è una svolta definitiva: la sua apparizione è il corrispondente, si parva licet, del sogno dell’agente Cooper in Twin Peaks 1x03 Zen, or the Skill to Catch a Killer, quello che segnò l’addio all’indagine convenzionale (l’omicidio in una piccola città) e l’inizio della “rivoluzione”. D’altronde la sostanza di Holly risulta subito connotata a livello visivo: Cynthia Erivo viene inquadrata da angolazioni oblique, ripresa leggermente dall’alto, andando a terremotare lo sguardo più rassicurante riservato alle figure intorno, la loro messa in quadro in campi tradizionali, perché è colei che porta la “rottura” della realtà. Seppure si apra con un delitto agghiacciante, infatti, all’inizio la serie ha la forma della realtà: c’è un crimine, un’inchiesta e un colpevole che appartengono a “questo mondo”. È nello sviluppo del racconto che la realtà si deforma, esattamente come il volto dell’Outsider che nel finale “attraversa i lineamenti”: e fin dall’inizio, nella sigla della serie, l’immagine stessa si sforma e sfalda, sullo schermo si aprono macchie. Tutto, in The Outsider, parla della dialettica tra razionale e non, del confine, del limite della ragione, della disposizione ad uscire dalla comoda certezza per accettare lo strano, il fantastico, il terribile. Tra le spinte opposte, nel loro incontro/scontro, ecco emergere una “terza via” alle forme della serialità odierna: né detection né horror, ma l’una che diventa l’altro.

Il mostro di sangue
La serie è però anche racconto intimo: fa entomologia dei personaggi, li mette a confronto con il balenare del sovrannaturale. Passando per la lotta contro l’Outsider si arriva alla resa dei conti con il proprio io, che dal punto di partenza passa per la trasformazione e porta a un nuovo approdo: il detective Ralph Anderson dovrà riconciliarsi con la morte del figlio piccolo attraverso l’esistenza di un hereafter, un altrove che in modo significativo non si limita alla creatura, e così l’uomo riceve la visita del bimbo scomparso che estende la percezione di un altro mondo vicino al nostro: “Let something in”, dice Ralph rivolto all’Outsider, ma il qualcosa da accogliere e accettare vale anche per il suo demone interno. E il più debole, il poliziotto cinico e alcolizzato, è colui che verrà posseduto dal mostro. D’altronde la dottrina kinghiana prevede da sempre che i veri mostri sono dentro di noi, prima di manifestarsi all’esterno: il leitmotiv dell’orrore interiore si combatte con la costruzione di un’alleanza e – ancora una volta – c’è un gruppo di individui eterogenei che si salda e va alla sfida finale contro il Male. Le diverse reazioni alla creatura, del netto rifiuto al possibilismo, si ricompongono e convogliano nello scontro con l’Outsider che avviene in una caverna. È una serie piena di simboli: Price e la sua squadra (sette registi, tra cui Jason Bateman e Karyn Kusama) conducono visivamente la partita lanciandosi in una contesa fatta di figure: Holly che si immerge nella vasca da bagno e scompare in una dissolvenza in nero, concretando la caduta nell’abisso dell’irrazionale; il killer che abborda il bambino in maschera, configurando l’assalto di una volpe spietata contro un cucciolo di orso; la già citata grotta della resa dei conti, ovvero ciò che sta in profondità, un luogo “sotto” il possibile. E sintomatica nell’ultimo episodio è la continuazione della storia dopo la sconfitta dell’Outsider: il racconto vira allora sui personaggi, si conferma dramma interiore, ne segue le parabole, verifica i mutamenti dopo l’incontro col Male, che (forse) è stato sconfitto ma ha postulato la propria esistenza. Che non si cancella, perché sono ormai smagliate le pieghe della realtà: nell’iniettare la sua inquietudine dentro il “normale” The Outsider si allinea ai grandi horror del tempo, dai film di Ari Aster a quelli di Mike Flanagan. Ma il titolo che sembra rievocare in filigrana è il capolavoro del B-movie The Tingler di William Castle (Il mostro di sangue, 1959): il parassita che si materializza attraverso la paura rivive qui nella creatura, sostituendo il dolore al terrore. Allo stesso modo c’è qualcuno che ci crede, un personaggio che lo teorizza nello scetticismo generale e alla fine ha ragione, Holly come una novella Vincent Price in quel film. Scrive Rudy Salvagnini nel Dizionario dei film horror: l’obiettivo di The Tingler era «andare alla base della paura per scoprire se c’è qualcosa di organico che se ne nutre». Non è forse lo stesso terreno? La definizione del formicolio si attaglia esattamente anche all’Outsider che è un “mangiatore di dolore”: anch’esso un organismo che si ciba di un sentimento. Corsi e ricorsi dell’orrore.

Un’ipotesi politica
A margine, guardando in controluce The Outsider, è opportuno non tralasciare questa strada. Una traccia iscritta nello Stephen King degli ultimi anni, che è diventato sempre più politico: il racconto lungo Elevation è una possibile allegoria della rottura della solidarietà nell’America di Trump che in quelle pagine viene provocatoriamente ricomposta, per poi volare via e dissolversi (lo si legga confrontando le continue critiche dello scrittore al presidente). Ne L’Istituto un gruppo di bambini con poteri extrasensoriali viene tenuto prigioniero in una struttura, dove è negata loro ogni informazione: la dominazione dei più deboli passa attraverso la negazione del sapere, perché a un governo non conviene la massa istruita, e la reazione passa attraverso la riconquista della conoscenza, ingaggiando con i carcerieri una sfida anche culturale. E The Outsider? La serie (e il romanzo) contiene una possibilità: la storia si apre con un abuso giustizialista, un arresto spettacolare con esito tragico, il cui responsabile presto si pente e inizia un percorso di espiazione. The Outsider è anche il racconto morale per riscattare una violenza delle forze dell’ordine. Allo stesso tempo torna una società segnata dalla fine della solidarietà, in cui si aggira un mostro che incarna questa frattura: non a caso il gesto di trasmissione è il graffio, una ferita minima che passa inosservata ma si rivela decisiva. Non a caso la costituzione di un vincolo tra i personaggi, il loro fare squadra, il muoversi insieme porta al dissolvimento della creatura. Giustizialismo contro diritti, individualismo contro solidarietà, solitudine contro comunità: la sfida che si combatte in The Outsider si inchioda nel nostro tempo incerto. E riporta l’horror alla tradizione settantesca, a dire qualcosa sulla società. Perché oggi ogni pagina, ogni immagine, non può che essere politica.