TRAMA
L’isola di Jersey, al largo fra le coste dell’Inghilterra e la Francia, 1945. La seconda guerra mondiale è finita, ma il marito di Grace non è tornato dal fronte. La donna vive con i suoi due figli, Anne e Nicholas, nella solitudine di una remota casa vittoriana; un giorno, si presentano alla sua porta tre nuovi domestici…
RECENSIONI
All'apparenza, l'opera terza di Alejandro Amenábar è un convenzionale horror gotico, tutto porte che è meglio non toccare, infanti inquietanti, scricchiolii misteriosi e nebbia impenetrabile. Insomma, un lavoro di routine, magari piacevole ma degno di essere dimenticato poche ore dopo la visione. Ma non è così. Il film rispetta in pieno le regole del gioco (donna con bambini minacciata da forze inspiegabili) ed allo stesso tempo, man mano che il racconto prosegue, si rivela capace di rileggere, dotandole di un senso nuovo, inaspettato ed entusiasmante, le convenzioni del genere, prima fra tutte la contrapposizione fra buio e luce. Qui, è la luce l'elemento mortale (per i bambini, affetti da una rara malattia della pelle, e di conseguenza per la loro madre, ossessionata dal benessere dei figli): questo tratto, apparentemente trascurabile, si rivela all'ultimo determinante per comprendere il rovesciamento totale operato dal regista e sceneggiatore, che pone in discussione la posizione del pubblico stesso. La tensione drammatica investe, non solo per modo di dire, la platea. Come la bigotta Grace, costretta ad abbandonare la propria ossessiva sicumera per elaborare nuovi schemi percettivi utili a comprendere la situazione in cui si trova, lo spettatore capisce, seguendo lo sviluppo del film, che il regista non ricerca lo spavento (se non in un paio di casi, fulminanti proprio perché isolati) ma esplora il lato oscuro delle convenzioni (dalla Genesi in giù) in base alle quali regoliamo la nostra vita. Non esiste una netta separazione tra bene e male, colpevoli ed innocenti, ed è folle chi, come la protagonista, tenta di "non aprire una porta prima che l'ultima sia stata chiusa". La ripartizione inflessibile va bene per i cataloghi: la vita è meno rigida di quanto vorremmo, per nostra comodità, che fosse. Questa considerazione riguarda anche il modo in cui è descritta la protagonista: Nicole Kidman, mai così pallida, a metà strada tra Bette Davis e la Deborah Kerr di "Suspense", tratteggia un personaggio sgradevole e meschino, tuttavia capace di indurre il pubblico ad identificarsi con questa donna sperduta, ossessionata dalla religione e devastata da un'inquietudine che non sa spiegare neppure a se stessa. Una prova di alta qualità, come quella offerta da tutto il cast.
Nessuna trovata fracassona (o "marziana"), ma grande professionismo ed una marcia metalinguistica in più: è questo il cinema di genere (se ha senso questa categoria) che vorremmo sempre vedere.
THE OTHERS è il più maturo e il meno interessante film di Amenabar. Se TESIS era un esordio vistoso ma fin troppo arzigogolato, se APRI GLI OCCHI si proponeva come un'intrigante e personale variazione sul tema delle realtà parallele, entrambi comunque ricchi di idee, risolte con stile acerbo ma generoso, quest'ultimo espone (e si esaurisce in) un catalogo di figure tipiche del manuale dell'horror: la grande casa zeppa di ricordi, le nebbie che tutto avvolgono, la claustrofobia diegli interni, panni sui mobili, pianti di bimbi, rumori inspiegabili, apparizioni. Due film sembrano poi ben presenti nell'immaginario dell'autore: GASLIGHT di Cukor (lo sgomento dell'ottima Kidman è un'eco precisa di quello della Bergman, anche se il look la rimanda direttamente alla Kelly hitchcockiana) e THE INNOCENTS di Clayton (IL GIRO DI VITE di jamesiana memoria, cui i due ragazzini rinviano inevitabilmente). Da ultimo il finale - che non può non rievocare il capovolgimento tramico già attuato da Night Shyamalan ne IL SESTO SENSO - che Amenabar propone con una bella sequenza che segue a quella più brutta del film (i domestici alla porta). Lo spagnolo conduce bene, con tensione quasi sempre alta, il disegno tramico (e in questo dimostra di essere migliorato assai), sa anche capovolgere il rapporto luceoscurità - paradossalmente è la luce ad impaurire e il buio a rassicurare - ma, a parte questa sottile trovata, usa gli archetipi a sua disposizione in modo piuttosto prevedibile e senza particolari guizzi, non rinunciando a un'ultimissima parte didascalica e francamente superflua. A LE VERITA' NASCOSTE di Zemeckis, che giocava con un armamentario in tutto simile ma rovesciandolo con ironia leggera, Amenabar sembra opporre un atteggiamento ben più serio(so) e ortodosso che conferisce alla sua opera una base solida (classica, nonostante il sovvertimento delle aspettative operato dal finale), un'algida confezione, una messinscena adeguata ma anche un'aura anonima che non giova affatto alla causa. Insomma se il suo cinema è sicuramente più adulto e consapevole, è vero anche che perde in freschezza e originalità. Ma il ragazzo ha tempo, staremo a vedere.
Alejandro Amenabar, dopo il fulminante esordio con "Tesis" e il successo internazionale di "Apri gli occhi", continua il suo personale cammino di scoperta e approfondimento dei confini. Dov'è che finisce il male e comincia il bene? Cosa è reale e cosa lo diventa nella mente? Quanti mondi si sfiorano in uno stesso istante? Gli interrogativi che il giovane regista pone sono di indubbio fascino, come è indiscutibile il suo talento visivo e la capacità di creare un'atmosfera inquietante in cui far muovere i personaggi. Se poi si considera che Alejandro Amenabar oltre che dirigere un film, generalmente lo scrive e ne compone pure le musiche, risulta evidente che il risultato finale sia una diretta espressione delle sue ossessioni e del suo interessante punto di vista. Come già in "Apri gli occhi", la sceneggiatura è molto dettagliata e con una prima parte di attesa in cui scoperte graduali alimentano la tensione narrativa. La seconda parte, invece, sembra girare un po' a vuoto e finalizzata a creare l'attesa per il colpo di scena finale. L'idea, davvero bella, sarebbe stata forse più efficace per un cortometraggio e alcune forzature (tipo la frase di lancio "nessuna porta deve essere aperta prima che l'ultima sia stata chiusa" o il ruolo dei tre domestici) risultano efficaci per la creazione dell'atmosfera e per dare sostanza al film, ma non trovano poi effettiva giustificazione. Perfettamente a suo agio Nicole Kidman in un ruolo di donna fredda, fragile e misurata.
Nel confine fra la Luce e le Tenebre vivono "gli altri", vivi e morti comunicano, finzione e realtà s'incontrano per svelare la Verità agnostica. Amenabar s'ispira, più che al "Giro di vite" di Henry James, al Suspense di Jack Clayton, intitolato, in originale, "The innocents": innocenti sono i bambini le cui colpe riflettono quelle degli adulti. Tenebra è l'oscurantismo religioso, vissuto con fanatismo in una rigida educazione cattolica: i bimbi emaciati soffrono l'abbandono e hanno terrore dell'Inferno. Tenebra sono i segreti rimossi, i fantasmi del passato, il rifiuto del contatto con altre dimensioni del proprio Io. Tenebra è la paura dell'ignoto, figlia dell'ignoranza, quella che strozza il fiato in gola agli innocenti chiusi in un armadio, circondati dall'Uomo Nero. Il thriller paranormale di Amenabar, con echi di Shining, procede per misteri e progressivi svelamenti, dosa sapientemente le ansie e le attese, trovando nell'espressività nervosa di una glaciale Nicole Kidman (si chiama Grace ed è truccata come l'hitchcockiana Grace Kelly) l'ideale sonda di presenze inquietanti, fuori e dentro di sé. La Luce entra in modo graduale, fino al geniale colpo di scena finale in cui è ribaltata la seduta spiritica: si parte con i tenui lumi della Favola della Creazione, per proseguire nella nebbia gotica che circonda la villa vittoriana, con la fotografia sul marrone che crea continue zone d'ombra, con l'uso di rumori e note (dello stesso Amenabar) che incalzano la paura. Quale differenza corre fra superstizione e religione? E fra i corpi caduti in un'assurda guerra e l'immaterialità degli spiriti inquieti? Per quale motivo un Libro dei Morti incute tanto timore? E' sintomatico che la Kidman, nel sottotetto, scopra prima una Madonna per poi rimanere pietrificata dinanzi alla propria immagine riflessa allo specchio. E' nella nebbia che ritrova il marito, non scappa solo perché lo crede vivo. La Luce rifulge oltre l'oscurità e il fantasma di noi stessi non troverà pace nella fuga che evita il confronto. L'eterno riposo giunge per chi coltiva l'amore, accudendolo in un nido (la casa).
.....ovvero, come "giocare" col perturbante freudiano con originalità e senza presunzione. Amenabar, regista talentuoso, prende in prestito dalla classica letteratura del terrore (il gotico inglese, il fantastico, ma soprattutto l'Henry James del "Giro di vite") i suoi elementi tipici, quali l'orrore nel/del familiare, il ritorno dei morti, ma anche le ataviche paure della morte e del buio e costruisce un solido film di genere dove il terrore nasce dal quotidiano e l'"identificazione con il morto" (che potremmo battezzare "focalizzazione fantasma") produce nello spettatore lo stesso effetto, strano e spiazzante, che già avevamo provato, di recente, nel bellissimo "Il sesto senso". La grande originalità del film sta proprio in questo: l'evitare sia che alla fine permanga il mistero (sarebbe troppo jamesiano), sia che si risolva tutto con una spiegazione razionale (come nel gotico inglese, ed in questo caso il film sarebbe stato o deludente o prevedibile); lo scegliere un rovesciamento di prospettica e il concedere ad un fantasma (a più fantasmi), il diritto di avere paura dei vivi, degli "altri", e non, come di solito avviene, il contrario. Da segnalare l'ottima prova della Kidman, nivea ed inquietante come la nebbia che circonda la sua casa.