Drammatico, Recensione

THE OLD OAK

Titolo OriginaleThe Old Oak
NazioneU.K., Francia, Belgio
Anno Produzione2023
Durata113'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

In un’ex località mineraria dell’Inghilterra del nord ormai in declino, TJ, il proprietario dell’Old Oak, l’ultimo pub rimasto in città, fatica sempre di più a tenere aperto quello che è ormai uno dei pochi spazi pubblici che restano agli abitanti.

RECENSIONI

Dintorni di Durham, Nord-Est dell’Inghilterra. Uno dei luoghi in cui la chiusura thatcheriana delle miniere negli anni Ottanta ha creato, da fieri proletari che erano, una massa di sottoproletari senza speranza. Quelle erano state le ultime vere lotte; eppure, c’è chi come TJ, proprietario del pub “The Old Oak”, resiste ancora ai lati più deteriori del presente. Per cui, quando arriva un pullman di rifugiati siriani mal visti dalla comunità di sottoproletari locali, lui sta dalla parte dei rifugiati. Soprattutto da quelli di una ragazza aspirante fotografa, che riuscirà a farsi accogliere mettendo, grazie alle proprie fotografie, la comunità locale di fronte all’immagine di se stessa.
Ken Loach continua il suo sporco lavoro iniziato da qualche tempo dopo la controrivoluzione thatcheriana. Lui ci mette la faccia (il brand) di ex arrabbiato e null’altro (di sicuro non qualche polso registico, qui assente a parte qualche sensibilità per le facce e il casting), Paul Laverty ci mette la perizia di adattatore per il cinema della vulgata radical chic dilagante nel mainstream mediatico. Che qui comincia anche ad essere stantia storicamente, visto che la solfa è sempre quella con cui Guardian e affini hanno già (peraltro inutilmente) ammorbato il dibattito con le loro chiacchiere razziste pre-Brexit: a fronte di immigrati tutti buoni (perché vittime), i maschi bianchi dei piccoli centri sarebbero tutti xenofobi; si salvano donne e bambini, qualche anziano della generazione delle miniere, e qualcuno che miracolosamente lavora e/o è sindacalizzato. E magari qualche caso individuale solo perché TJ gli ha parlato faccia a faccia – tanto per ribadire che, nel mondo di Loach e Laverty, in maniera perfettamente thatcheriana, le classi non esistono più, ma solo la buona volontà degli individui.

Pochissimo fiducioso verso un pubblico che, secondo lui, va al cinema solo per trovare conferme narrativizzate di quello che già trova in televisione, Paul Laverty indulge in mezzucci di sceneggiatura che metterebbero in imbarazzo non dico Beh Hecht, ma una qualsiasi matricola della Scuola Holden: cagnone dei giovani disoccupati locali che all’improvviso divora il cagnolino del protagonista (cagnolino già complice di una gratuita evocazione di Umberto D di De Sica) giusto per far capire ulteriormente agli spettatori chi sono quelli per cui deve fare il tifo; meccanicissimi saliscendi drammaturgici attraverso cui tenere viva l’attenzione degli spettatori (pedestri docce scozzese del tipo apertura euforica con la serata che unisce autoctoni e immigrati, seguita dall’improvvisa sfiga disforica del circuito elettrico del pub di TJ che salta completamente); e via deliziando.
Ma con una scrittura così dilettantescamente manipolatrice, anche i pur lodevoli afflati ecumenici (immigrati e sottoproletari locali uniti nella lotta – anche se il borghesissimo Laverty tiene fuori dall’alleanza i maschi bianchi, perché evidentemente i proletari vanno bene solo quando “decaffeinati”) perdono di vigore e di convinzione. Non è che tagliare con l’accetta sia necessariamente e intrinsecamente un male: comincia però a esserlo quando questi ridicoli manicheismi di sceneggiatura si accompagnano a una regia di ispirazione naturalistica, spacciandosi dunque come “veri”. Schiacciati da una scrittura che procede coi piedi di piombo, nemmeno gli slanci utopici di cui sopra riescono a volare: cominciano e finiscono come striminzite pillole informative in una rete di informazioni esclusivamente finalizzate a convincere gli spettatori dei pregiudizi che già possiede.