TRAMA
Londra. Dopo la morte del marito l’anziana May, scoprendo di essere malvoluta dalla famiglia del figlio Bobby, si trasferisce dall’altra figlia Paula, una ragazza nevrotica ed instabile. Qui inizia una relazione erotica con il suo uomo.
RECENSIONI
Un film mancato: Roger Michell batte il tortuoso sentiero della terza età richiamando il desichiano UMBERTO D (la donna sola nel frastuono della City, fino a smarrire la bussola) ma non arriva neanche al ghigno gigione del recente Warren Schmidt. Nonostante un’ironia sotterranea (data soprattutto dallo spassoso equivoco per cui i vecchietti trascurati partono alla riscossa: la madre si scopa l’uomo della figlia) il tono è quello del grandioso affresco sociale, svelando una pretesa d’autore in pompa magna che uccide ogni leggerezza del tocco, per sfidare la palpebra dello spettatore. La pellicola inizia bene: una scacchiera di dissolvenze incrociate delinea la grigia monotonia di una coppia di anziani, appoggiandosi per una volta al lodevole doppiaggio italiano (il marito di May: quella voce stridula e cadente, anziana e trillante come solo un nonno può avere). La regia azzecca un paio di passaggi (la vecchiaia vista dal basso, attraverso una coppia di pantofole), svelando in generale una diffusa maestria alla macchina da presa; questa si esalta nella carrellata finale, la parte migliore della messinscena, dove May in progressione abbandona la casa/famiglia che l’ha ospitata, caracollando fra quelle mura senza fretta, come per passare in rassegna l’ultima volta i suoi mesti abitatori. L’opera mostra la sua genialità in potenza nella rappresentazione del sesso senile, incredibilmente pacata, senza una sbavatura o esagerazione; una patata bollente maneggiata coi guanti fino a trasformarla in punto di forza (lo spassoso confronto a letto tra il giovane Darren e l’anziano Bruce, che nell’amplesso rischia di rimanerci). Questo il vero acuto che evita al film di Michell le sabbie del dimenticatoio, tradendo una certa abilità nel filmare l’interno dell’animo attraverso dettagli estetici (in)significanti, alla AMERICAN BEAUTY insomma. Di contro, dopo una manciata di minuti si scivola nella retorica del lutto, forse un virus ereditario trasmesso nel Regno Unito da certo cinema francese contemporaneo (parlo dello Chereau di SON FRERE, ma anche LE INVASIONI BARBARICHE e IL CUORE DEGLI UOMINI, per citare soltanto gli ultimi); all’allusione implicita, funzionale per comporre il suo messaggio, THE MOTHER preferisce urlare sbrigativamente il contenuto (l’uscita di Darren: “Quando siamo vecchi non ci vuole nessuno”) e puntare tanto pedantemente sul lato emozionale da risultare diffusamente avaro di sentimenti. Sarebbe potuto essere di gran lunga migliore, se non avesse alternato passaggi azzeccati (il pugno della figlia alla madre) ad un’onnipresente deriva retorica (il piagnisteo della prole, vittima fin dall’infanzia della classica mancanza di fiducia materna) ed un’inclinazione cronica al luogo comune (la donna che si rende conto di non aver vissuto, quante volte ormai?). L’attrice protagonista Anne Reid, direttamente dal LIAM di Stephen Frears, al contrario mi conquista senza mezzi termini: antieroina in risposta a tante dive strombazzate, mantiene un composto tormento interiore che la rende presto idolo della platea. Per comporre il battage pubblicitario l’astuto (?) Michell deve essersi ricordato del precedente NOTTING HILL: il coraggio di vivere fino in fondo ogni emozione, recita il losco sottotitolo. Pubblicità occulta ai romanzi Harmony?
Tratto da un romanzo di Hanif Kureishi, già penna di MY BEAUTIFUL LAUNDRETTE e INTIMACY, che scrive la discutibile sceneggiatura.

La parola sesso ci fa pensare in prima battuta alla giovinezza, quando al massimo splendore fisico si affianca la capacita' emotiva di dare concretezza al desiderio. Stando al cinema, che riflette la vita, la sessualita' sembra poi annacquarsi con la stabilita' affettiva, sfuma in perversione nella solitudine e muore completamente nella vecchiaia. Uscendo dalla perversa, quella si', necessita' di rinchiudersi in un'etichetta, con una vita (s)regolata sul palinsesto televisivo, conformata alle copertine dei rotocalchi e fondata su un confronto distruttivo, puo' capitare di porsi domande non banali e di provare a cercare risposte. E' quello che fa Roger Mitchell, trasponendo in immagini il romanzo omonimo di Hanif Kureishi (gia' prestatosi al cinema con "My Beautiful Laundrette" e "Intimacy", e qui in veste anche di sceneggiatore). La protagonista e' infatti una donna ormai anziana che, rimasta vedova, riscopre con un prestante giovanotto le ebbrezze del piacere fisico e dell'amore. Il problema e' che il ragazzo e' il fidanzato della figlia. Un soggetto di questo tipo puo' risolversi in commedia (vedi "Tutto puo' succedere" di Nancy Meyers), oppure in dramma. E Mitchell opta per quest'ultimo, rifiuta soluzioni e stile da blockbuster (nonostante i trascorsi a "Notting Hill") e sceglie atmosfere di ordinaria urbanita' londinese, immergendo i personaggi nella mestizia del grigiore domestico. Ed e' proprio questo contorno cosi' convenzionale, a partire dal rigore quasi "dogmatico" della messa in scena, a soffocare l'interesse verso il conflitto della protagonista. Se infatti bisogna riconoscere al film la rara capacita' di restituire dignita' alla vecchiaia (con una brava e coraggiosa attrice sessantottenne, Anne Reid, che sembra proprio una sessantottenne e non fa nulla per nasconderlo), e' anche vero che i personaggi che popolano questo teatrino di bigia umanita' non escono dal luogo comune: la figlia rancorosa, il figlio in carriera, la nuora spendacciona, i nipoti (pessimi attori) indifferenti, l'amante "scoppiato", tutti cinici e disperatamente bisognosi di un affetto che sono solo capaci di pretendere e non di dare. La regia, poi, sembra preoccuparsi di mantenere sempre un gelido distacco tra schermo e spettatore e finisce per forzare in modo grottesco alcuni sviluppi, anche cruciali (i disegni pornografici che fanno scoprire la liason, il tentato suicidio della madre interrotto in extremis dalla figlia assetata di vendetta); mentre ne azzecca con efficacia altri (la rappresentazione del sesso, disperato con il pretendente coetaneo e appassionato e liberatorio con l'amante; il rassicurante e mesto tepore casalingo esplicitato nelle pantofole del marito in docile attesa sulla soglia di casa). Il punto di vista di cui si diventa testimoni e' quindi importante e tutt'altro che banale ma, complice anche la sceneggiatura, non riesce a diventare davvero illuminante come le premesse lasciavano sperare.

Dopo il piattume e le ombre del matrimonio May, the mother, sente appiccarsi il fuoco e intuisce una cosa importante: quella freddezza che avverte nell'atteggiamento filiale è figlia sua anch'essa, le ambizioni classiste di Bobby, i fantasmi di Paula degni nipotini di tale nonna; forse cinica e e un po' maligna lo è sempre stata e adesso quella cattiveria menefreghista può rispolverarla con l'alibi della vecchiaia, con la leggerezza della vedovanza; tanto sua figlia ha una vita già tutta fuori quadro; tanto suo figlio è tutto preso dal salto di qualità sociale e nella sua splendida dimora pretende la veranda, trasparente gabbia in cui mettere in mostra il raggiunto status neoborghese; tanto la famiglia è solo una carezza o l'idea di un abbraccio mentre la realtà punta verso interni pieni di tanfo: impossibile bonificarli. E poi c'è lui, il bastardo fottimadre, o forse no, forse in questa omertosa storiaccia familiare - che Michell dirige brillando per la sua opportuna assenza e ossequiando un copione firmato da Hanif Kureishi - questo'uomo presta il corpo a un pretesto, è un uccello imprigionato che ci si palleggia in due, madre e figlia, e che vorrebbe solo volare via.
Forse davvero Londra (e la famiglia) li uccide e May, che è la più furba di tutti, stavolta se ne accorge in tempo: fa armi e bagagli e se ne va. Bastarda fottimadre.
