Drammatico, Recensione

THE MILLIONAIRE

Titolo OriginaleSlumdog Millionaire
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2008
Durata120'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

India: l’ispettore della polizia di Mumbai tortura il diciottenne Jamal perché sta per vincere 20 milioni di rupie al quiz televisivo “Chi vuol essere milionario”. Lo sospetta di frode: il “pezzente” gli racconta l’infanzia nelle baraccopoli e il suo amore per Latika.

RECENSIONI

A sorpresa, Danny Boyle trasporta Millions e Trainspotting in India, girando fra le “slums” come farebbe Fernando Meirelles, intersecando i registri, colorando la violenza e la tragedia con burle, surrealismo ed estetica lisergica. Prende le mosse dal romanzo “Le dodici domande” di Vikas Swarup (sceneggiato da Simon-Full Monty-Beaufoy), si vernicia di Bollywood (strepitoso, liberatorio il balletto finale), delle musiche trascinanti di A.R. Rahman (quello di Lagaan) e, come in Trainspotting, divide l’opera in due parti (toni): la prima, in flashback sull’infanzia, è la migliore per creatività nella messinscena (stile iperbolico, tagli obliqui, soggettive fanciullesche fra riprese dal basso e visioni fantastiche, snelle apparecchiature digitali, montaggio convulso, spesso parallelo) e generosità di situazioni bizzarre (nei modi, non nei contenuti, anche atroci). La seconda, più piana, si dedica al romanticismo, alla saga del riscatto sociale (Jamal diventa un eroe del popolo), peccando (un poco) di calcature. Di Millions riprende i due fratellini antitetici, il denaro come mezzo per l’amore (là per la mamma, qui per una ragazza), la favola crudele/edificante, “sporcata” da qualche buffo sprazzo crasso (Jamal ricoperto di escrementi per vedere il suo divo preferito!). Singolare anche la struttura drammaturgica che, ad ogni risposta esatta data nel quiz, mostra l’episodio che ha generato quella conoscenza, presupponendo la mano del Destino nella regolazione del Caso, nel momento in cui si dà senso ad un’esistenza colma di patemi, ad un’infanzia cresciuta in fretta, premiando la sincerità e la caparbietà. Non c’è (solo) Fortuna, Jamal affronta e abbatte ogni ostacolo: lo sfruttatore alla Oliver Twist, lo scorretto conduttore televisivo, il fratello prepotente, il poliziotto violento e il Breve Incontro in stazione. Le rivelazioni finali aprono il cuore nel momento in cui l’avidità toglie la maschera rivelando l’amore, solo l’amore: I Tre Moschettieri in qualche modo si riuniscono, ignoranti e vincenti, perché “Dio è grande”.

The Millionaire si barcamena, fluttuante, tra più registri e soffre di una mancanza di identità che alla fine ha decorso fatale. Realismo, realismo poetico, fiaba, fiaba dark, denuncia, hollywoodianità classica e bollywoodianità riflessa si alternano senza imboccare una direzione precisa e delineata, con una messinscena e una struttura narrativa che seguono percorsi omologhi. L’efficacia dell’idea drammaturgica che sorregge il film, con l’alternarsi di tre linee temporali distinte (il romanzo di formazione di Jamal, la sua partecipazione al quiz e il suo presente alla stazione di polizia) dura sì e no un quarto d’ora: non solo, infatti, l’espediente invecchia precocemente e diventa un meccanico marchingegno di sceneggiatura, ma è anche mal gestito da tutti i punti di vista. I link tra le risposte milionarie e la vita del protagonista si fanno vieppiù forzati e flebili, con una scansione dei tempi mal bilanciata che smarrisce coesione e genera perdita di interesse per tutte le storie in campo. E più passano i minuti più le patologie degenerano: momenti presunti forti (l’accecamento dei bambini a scopo di lucro) si alternano a siparietti para-comici di inaccettabile demenza (i turisti gabbati), personaggi rifiniti alla meno peggio (Maman) passano il testimone a bolsi stereotipi antropomorfi (Javed), la sceneggiatura inanella svolte e incastri privi di qualunque tipo di coerenza (non solo interna [1]) mentre la “storia principale” imbocca un sentiero di imprevedibile prevedibilità, col confluire delle linee narrative in un happy end hollywoodiano che cerca dignità aggrappandosi all’epilogo bollywoodiano. E intanto si è confezionato un film ambizioso che omaggia (dopo la polvere) una filmografia altra, solleva temi importanti del tipo “signora mia ha visto come stanno male in India?”, apologizza il fat(alism)o in chiave favolistica, inneggia all’Amore Eterno e palesa tronfio la proprioa (post)modernità in salsa pop. Perché Boyle ci dà dentro da par suo: fotografia continuamente tarata, montaggio serrato, macchina da presa mobile, andirivieni di cambi di angolazione e inclinazioni inusuali… una “ricchezza” solo apparente che se altrove trova il suo perché (lo pseudo-realismo digitale di 28 Giorni Dopo) e sa plasmarsi sul contenuto atmosferico/narrativo del film (Sunshine) qui diventa piatto esibizionismo virtuosistico, perché adagiato su un contesto diegetico affatto disomogeneo che solo a tratti sembra allearsi col dato/lato visivo. [1] Sintomatico ci pare il “trattamento” riservato al noto quiz/format Chi vuol essere milionario? Di fatto è l’innesco e, per così dire, il motore narrativo del film, e si sceglie inizialmente la via del realismo tout court (non è un quiz “à la”, è proprio “quel quiz”) ma poi vi si innestano progressivamente forzature (possibile che il 90% delle domande riguardi l’India?) e implausibilità (il concorrente libero di girare per lo studio e di andare in bagno dopo che gli è stata posta la domanda) fino alla completa sbracatura finale, dato che non solo l’ultima domanda da 20000000 di rupie è di una facilità sconcertante (i nomi dei tre moschettieri) ma la trasmissione è in diretta televisiva, con ovvie ripercussioni sul senso dell’”aiuto da casa”. Non ci sembrano obiezioni da Nerd: il film presenta un ancoraggio alla realtà per poi plasmarlo e stravolgerlo a piacimento solo per esigenze di sceneggiatura, col pubblico che dovrebbe bersi tutto solo perché ha il fumo del fiabesco negli occhi. Non ci siamo.