TRAMA
La famiglia allargata dei Meyerowitz è in procinto di riunirsi per partecipare a una retrospettiva dell’opera scultorea del patriarca Harold.
RECENSIONI
Il titolo ci dice che quelle che stiamo guardando sono tessere di un più ampio mosaico, i frammenti di un racconto più esteso, gli estratti di un romanzo lungo una vita: le ultime storie, accuratamente selezionate (quindi significative) di una famiglia che ha un pregresso enorme, contenuto in altri potenziali film (altre storie, altre selezioni) che ci vengono illustrati sommariamente nei discorsi dei protagonisti che ineriscono il passato, quasi riassunti delle puntate precedenti (con sublimi ricami: gli occhiali da sole senza un proprietario certo, oggetto incollocabile, non classificabile in una delle ere familiari, così ben delineate nei loro confini temporali). Ognuno di questi film ha il suo percorso, un contesto peculiare, madri diverse a seconda del protagonista, e concerne destini differenti all’ombra del totem paterno che incombe ingombrante, e che pretende di plasmare, chiede soddisfazione (ciecamente, acriticamente), senza prendere mai in considerazione le naturali inclinazioni dei figli, il loro carattere, ma vedendo in essi solo degli schermi sui quali proiettare i suoi desideri, le sue aspirazioni, esorcizzare le sue frustrazioni.
L’ossessione del talento: quei figli, ai suoi occhi, sono solo artisti mancati, non sono geni come lui che, insomma, forse un genio non è mai stato, perché se è uno scultore minore, che la posterità ha seppellito, una ragione c’è. E all’autoconvincimento di Harold fa eco la volontà dei figli di credere che il padre sia un fuoriclasse, perché nessuno di essi vuole dirsi che la sua vita è stata rovinata da un uomo men che eccezionale.
La dialettica paterna si muove tutta su questa logica binaria: il fatto che voleva una progenie di artisti e il fatto che questa non lo è diventata («Non hai mai pensato che ci siano altre cose di mezzo?»). Per i figli, invece, l’arte è sfogo e via di fuga, un modo per esprimersi, ma non per realizzarsi: se si crea lo si fa senza pretese (le canzoncine di Danny sono destinate a rimanere inni familiari, intimi, non condivisi fuori dal microcosmo domestico).
Baumbach si ritrova ancora una volta a discutere di rapporti presenti alla luce del passato, discorso che si sintetizza nel nodo materiale di una casa-simbolo e di un’opera omnia in vendita. Un mondo familiare (reperti, documenti e tutte le storie che vi si legano) si va disperdendo, uno tsunami travolge i Meyerowitz, famiglia piena di rancori e di recriminazioni (dette o soffocate) che si confondono con quegli oggetti che ne sono rappresentazione esteriore, un patrimonio al quale, nonostante la sofferenza che determina, si fatica a rinunciare (e infatti sarà Maureen, l’ultima moglie di Harold, a disfarsene, liberando queste persone del fardello, consentendo loro di ricominciare - Jean si taglia addirittura i capelli -).
Nel finale Eliza, che si avvia a ereditare il peso della famiglia e forse a dissolverlo (lei vuole essere un’artista nel senso pieno del termine e sta operando in tal senso: non ha addosso l’opprimente aspettativa del patriarca), ritrova nell’archivio del Whitney Museum la scultura del nonno consegnata all’epoca: un pezzo di passato si congiunge al presente, il prequel della storia dei Meyerowitz incontra il suo sequel. Ecco, quando Baumbach concepisce momenti così densi e significativi, e nello stesso tempo, così soavi, si percepisce in pieno la portata della sua maestria.
La comunicazione è sempre difficile nelle famiglie del regista americano, è come se ci fosse un gap impossibile da colmare, come se non esistesse un collegamento transgenerazionale, come se le parole si perdessero tra un livello e l’altro: in molti dialoghi di questo film padri e figli parlano due lingue diverse, seguono fili differenti, non collimanti, ognuno per la sua strada monologante (il padre porta avanti incurante il suo discorso ostinato, il figlio non riesce a farsi ascoltare; il figlio dice qualcosa, il genitore aveva già detto la stessa cosa a suo tempo). All’inizio, da subito, nella scena in auto, si mostra come lo schema si sia perpetuato: «Ti piace la fotografa Cindy Sherman?» chiede Eliza al padre, e Danny «Ti avevo parlato di Cindy Sherman due anni fa». Nello stesso modo se Harold è impressionato dall’incontro con Sigourney Weaver e continua a ripeterlo ai figli, questi sono chiaramente indifferenti al fascino della celebrità e lasciano cadere la cosa.
Quella del dialogo tra diverse generazioni è da sempre un nodo del cinema di Baumbach, teorizzato in termini di aperto conflitto in Giovani si diventa (saggio sul disorientamento dell’età matura e sulla difficoltà di invecchiare, sul terrore di essere soppiantati dalla rampante gioventù, disegnata come rapace e cinica) e nel successivo, abissale Mistress America (ma anche Greenberg parlava di questo in maniera esplicita): i personaggi sono sempre spiaggiati in un’epoca nella quale si riconoscono e rispetto alla quale cristallizzano il proprio modo di essere, una dimensione che non riescono ad abbandonare (e che viene idealizzata - è su questo terreno che Noah Baumbach e Wes Anderson si sono incontrati -). Per questo col passare del tempo, diventano fuori contesto, fuori luogo, non sincronizzati con l’attualità e conoscono crisi profondissime.
Qui la questione è complicata dalle forti differenze delle condizioni vissute da ciascun figlio rispetto a un genitore egoista e brontolone (psicanalizza tutti) e dalle sue preferenze ostentate senza alcuna delicatezza (la password del pc di Harold è «matthew», il nome del figlio prediletto, quello che la strada dell’arte non l’ha nemmeno provata, l’unico che ha intrapreso un percorso diverso e ha fatto quello che sapeva fare: i soldi), preferenze che hanno creato danni a tutti (l’attenzione nei suoi confronti, dice Matthew, non era meno deleteria della disattenzione riservata ai fratellastri). Quando alla fine si scopre che era stato Danny ad aiutare il padre a creare una scultura, rivelazione che smentisce il mito tramandato e rende fallace la denominazione dell’opera (Matthew, ovviamente), la verità si conosce solo perché il patriarca non ci sta con la testa e non ha più resistenze, consce o inconsce che siano. Perché sta tutto lì il dubbio cruciale sul personaggio e sulla dinsfunzionalità familiare: Harold ricordava male o mentiva a se stesso e agli altri?
Baumbach (che gestisce come al solito mirabilmente il meraviglioso cast) è nel suo territorio prediletto, quello che doveva condurlo all’adattamento televisivo del romanzo americano familiare per eccellenza dell’ultimo ventennio, Le correzioni di Jonathan Franzen (peccato), coerentemente con una tradizione teatrale che non sembra tramontare mai (il Pulitzer a Tracy Letts per il capolavoro August: Osage County e il suo recente adattamento cinematografico lo testimoniano), nel rispetto del modello alleniano (il comedy-drama newyorkese, in ambiente artistico), ma senza piegarvisi e mettendo in campo gli elementi di un gioco al massacro potenziale che non esplode in scene madri, ma sempre in scaramucce, brevi faccia a faccia, risentimenti sottopelle (l’unica vera lite, tra Matt e Danny, si traduce in farsa) che nutrono un fiume sotterraneo di tristezza che si avverte scorrere, ma non si distingue mai. E in cui il racconto si snoda perfetto attraverso tre step fondamentali: la discussione mancata sulla vendita, l’ospedalizzazione di Harold, la cerimonia che inaugura la sua esposizione. In queste tre tappe i caratteri si mettono in piena luce, si comprende ciascun personaggio di che pasta è fatto e come si rapporta rispetto al paradigma paterno (così Danny al MoMA non riesce a mollare il padre e spreca la sua occasione con Loretta; Matt dice che l’avrebbe mollato, ma ci sarebbe stato male) poiché Harold è il costante ago della bilancia di malumori, delusioni, frustrazioni, mai colpevole di grandi delitti, ma di uno stillicidio di piccole ingiustizie («Vorrei che avesse fatto una cosa orribile e imperdonabile»).
Giova allora ribadirlo: Baumbach scrive i migliori dialoghi dell’attuale cinema americano, acuti, umani, attenti a restituire la banalità dell’ovvio. E il suo cinema ha momenti di verità folgoranti (basterebbe la sequenza coi jump-cut: Danny che recita, al padre che sta abbandonando, le formule imparate all’ospedale per riconciliarsi coi morenti), sprazzi dolorosi e ironici che continuano a valere filmografie più lodate della sua.