TRAMA
Una giovane coppia visita un esclusivo ristorante su un’isola remota dove l’acclamato chef ha preparato un sontuoso menu di degustazione, insieme a qualche sorpresa scioccante.
RECENSIONI
Si aggiunge un altro tassello al filone, oramai sovrabbondante, del cinema culinario, consolidatosi a tal punto da sfociare naturalmente nell’horror, che è, ancora naturalmente, un horror (auto)parodico. In questo senso The Menu, opera quarta nella discontinua carriera registica di Mylod, assurge idealmente a ricoprire il posto di pietra tombale. Estremo di una parabola ormai esauritasi, viene da chiedersi cosa resti ancora da filmare dopo aver sorbito (come un buon infuso al cardamomo e chiodi di garofano, s’intende) sul grande schermo chef stellati e stellari, chef in crisi d’identità, chef falliti e risorti, e infine, appunto, chef impazziti e assassini.
Ambizioso dunque il proposito di The Menu, non già dessert quanto piuttosto ammazza(sic)caffè di quel cinema a vocazione gastronomica che, nella coda lunga dei vari Masterchef televisivi, già da un po’ ha iniziato a sondarsi per indagare il lato sour dell’alta cucina avendone abbastanza di quello sweet (in concomitanza con il film di Mylod è nelle sale italiane Boiling Point – Il disastro è servito, Barantini 2021, ad esempio). Purtroppo però, come vuole la saggezza popolare, non tutte le ciambelle riescono col buco. Pur infatti vantando una mise en place di certo, rodato interesse – un’isola ideale per la Battle Royale (Fukasaku 2000), una struttura à la Agatha Christie, un parterre attoriale di tutto rispetto – a fine pasto di questo menù rimangono soprattutto una tangibile insipidità della sceneggiatura, il retrogusto di una regia indietro di cottura, e la palatabilità (sì, l’ho scritto) stucchevole di alcune soluzioni facilone (soprattutto per quel che concerne la famigerata linea comica, di fatto semplicemente fuori luogo). Dunque niente “voto diesci” per questa volta.
Un po’ più nello specifico, cerchiamo di capire come mai il film non appare, in via definitiva, cotto a puntino. Anzitutto, si diceva, la sceneggiatura sembra essere bruciacchiata: uno chef (lo straordinario Ralph Fiennes, qui tipo Voldemort in grembiule) ordisce per mesi una cena speciale; nella sua lussuosa isola-ristorante commensali accuratamente selezionati vengono invitati per una libagione che sarà l’ultima della loro vita, perché il menù prevede che essi, sadicamente, vengano infine sacrificati, metaforicamente divenendo piatto. Un po’ vendetta cannibal (“m’hai provocato, io me te magno!”), un po’ happening fra la Abramović, Hermann Nitsch e una spuma torture porn, il piano dello chef è architettato in punta di coltello. Fin qui tutto bene: e però il punto è che, in effetti, è tutto qui. Gli invitati non sono che stereotipi, per restare nella molesta terminologia culinaria, “fatti con lo stampino”. La sceneggiatura è, direbbero quelli che ne sanno di cucina, una riduzione lasciata troppo sul fuoco. C’è la coppia di borghesi e lui tradisce lei, ci sono i disonesti uomini di affari, l’attore cafone con la sua accompagnatrice, poi ancora i critici culinari sclerotizzati che anziché mangiare commentano con fastidiosa sicumera (ci ricordano, in effetti, dei perfetti critici cinematografici), e infine il food lover ben oltre il limite della stabilità mentale, convinto di sapere tutto perché ha visto tanti programmi gastronomici alla televisione, in compagnia dalla misteriosa Margot (una Anya Taylor-Joy brava e sprecata). E sono naturalmente tutti (o quasi) delle bestie, incapaci di apprezzare l’eccezionalità e l’esclusività della situazione in cui si trovano, troppo presi dal loro piccolo ego. Dall’altro lato c’è lo chef, enigmatico, militaresco e magnetico, con tutta la sua brigata di cucina, soggiogata a tal punto da partecipare volenterosamente al progetto di una cena che non è solo omicida, ma anche suicida (è previsto che anche loro, chef compreso, ci lascino le penne, e pure male). Come si direbbe: troppa carne al fuoco, e infatti il risultato è una sorta di bolo mal digerito in cui i personaggi sono tutti monodimensionali (come si trattasse di un canovaccio, di una primordiale idea di film), le dinamiche prevedibili e solo accennate, e gli elementi di interesse autentico ridotti all’osso. Il food lover (un eccellente Nicholas Hoult), inizialmente macchietta, è forse l’unico azzeccato, proprio per via di una sua evoluzione che ne mostra crudelmente il lato oscuro e perverso. Lo chef semplicemente non funziona perché non è né per davvero pazzo, né per davvero così arrabbiato. Sui motivi della sua collera nulla ci è dato sapere (sì ok, dice che ha perso l’amore per la cucina, grazie, non mi sembra abbastanza per bruciare vive una quarantina di persone), e andrebbe anche bene, se non fosse che però allora non ha senso imbastire una sciapa moraletta anticapitalistica. Margot, incolpevole vittima delle circostanze, non serve che a introdurre un barlume di intelligenza in un contesto altrimenti dominato o da stupidi o da invasati, ma forse è un po’ poco (specie se strutturi il film come una specie di Dieci piccoli indiani ma poi non lavori bene sui personaggi). La brigata di cucina poi, questa è davvero un mistero: perché così servilmente si danno a una morte orrenda? Basta uno schematico leader carismatico a giustificare tutto? Sono una brigata di psicopatici accuratamente scelti, come farebbe pensare la sous chef in quella immotivata sequenza in cui è protagonista, ma se è così come li ha trovati? Forse richiedendo sul CV capacità di lavoro in team, predilezione per la cucina molecolare, e spiccate tendenze suicidarie? E però alcuni di loro non sembrano poi così contenti di morire, quindi così pazzi non sono (forse ostaggi, chi lo sa, io no).
Ora, viene dunque da giudicare il film secondo un processo alle intenzioni: se esso avesse voluto raccontare semplicemente la storia di un branco di squilibrati che rapiscono e seviziano dei commensali, ecco questa sarebbe stata una storia interessante, una specie di affondo sull’insensatezza del male. Un bel film crudo, come una tartare, privo di consolazione e quindi piacevolmente (poiché dolorosamente) marinato nella non-retorica. Al contrario tuttavia più di un elemento sembra fare intendere che il film invece voglia articolare un discorso sulle ragioni soggiacenti a quel male, espresso come ultima rivoluzionaria istanza dallo chef, e però per davvero non sembra farcela.
Tolta poi la sceneggiatura, la regia sembra avere poco da dire. Né particolari guizzi, né estro, si apprezza soltanto quel décalage, forse non del tutto consapevole, fra la messa in mostra meta-diegetica delle pietanze, magnificate con tanto di scritta esplicativa in sovrimpressione, e il modo in cui queste sono del tutto sacrificate quando di fronte al branco di stolidi commensali. Come a dire: c’è una dimensione rappresentativa, in un certo senso pornografica (cfr. food porn), del cibo sui mezzi di comunicazione, e però poi buona parte delle persone che possono permettersi tanta maestria non è in grado di apprezzarla, e anzi la degrada. Anche qui, mi sembra che siamo però un po’ al grado zero del manicheismo. E lo conferma la linea ideologica di fondo, costruita su un’opposizione così netta da far venire in mente quei video in cui qualche simpaticone abbina la crema di nocciola con la mortadella: sapevi che non è cosa buona e giusta senza doverlo sperimentare.
Sarà infatti Margot a rappresentare il contraltare di quel mondo di variamente colpevoli (anzitutto ricchi) contro cui lo chef rivolge la propria furia. Lei, donna del pueblo, si guadagnerà la salvezza chiedendo un cheeseburger. E però scusate un attimo: quindi lo chef sarebbe una specie di Che Guevara ai fornelli, tutto brunoise e pugno alzato? Quello che vive su un’isola, per propria scelta, in una villa meravigliosa, con uno stuolo di servitori pronti a morire per lui, e che per una cena fa pagare 1200 dollaroni fumanti? Sono queste le premesse – la poveraccia che si mangia il panino e sa apprezzarlo e i riccastri che invece non comprendono il valore di una capasanta a km0 – per una riflessione cinematografica sul conflitto di classe?
È vero, una recensione che voglia dirsi prelibata non dovrebbe eccedere nelle domande retoriche. Come per il sale, si fa sempre in tempo ad aggiungere, ma è poi troppo tardi per togliere. Si prendano però un po’ come il sorbetto al limone all’all you can eat, per pulire la bocca. Chiuderemmo quindi la degustazione in maniera meno dubitativa e più affermativa, a mo’ di ciliegina sulla torta (o dovremmo dire petite pâtisserie). The Menu ha il sapore di un’occasione persa, un film d’asporto piuttosto che una pellicola che avrebbe potuto alludere alle note frizzanti di un Pasolini o agrodolci di un Ferreri. Ed è così per motivi che agli appassionati della tv della ristorazione sono chiari da anni: il buon cinema è un’arte sottrattiva, meglio togliere che aggiungere (come per le domande retoriche), specie se si rischia – troppo concentrati sul preferire lo scalogno alla cipolla, non sapendo poi trattare la proteina – di non fare un film-piatto, bensì di affastellare un poco succulento assemblaggio di elementi.