Bellico, Drammatico, Recensione

THE KILL TEAM

Titolo OriginaleThe Kill Team
NazioneU.S.A., Spagna
Anno Produzione2019
Durata87'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Un giovane soldato americano in Afghanistan, scosso dal comportamento del suo superiore e del suo plotone, si trova di fronte a un dilemma morale.
Basato sulla vicenda delle uccisioni nel distretto di Maywand in Afghanistan.

RECENSIONI

Innanzitutto i fatti.
2009. Andrew Briggman è un giovane soldato americano inviato in Afghanistan. Sotto il comando del sergente Deeks si ritrova a servire nel suo plotone, macchia portatrice di morte che inquina le prove in scenari di guerra, seminando armi vicino a civili disarmati col solo scopo di poterli sterminare indiscriminatamente. Briggman, oppositore del delinquente sistema, comunica l'atroce pratica a casa con l'intento di far intervenire la polizia
La trasposizione a fiction delle uccisioni nel distretto di Maywand, a cui il regista Dan Krauss aveva già dato voce sotto forma di documentario nel 2013, vorrebbe porre alla base della vicenda un dilemma. Ma il dilemma non c'è.
Se da un lato il film vorrebbe evidenziare il dubbio sull'agire del protagonista, individuo diviso tra l'adeguarsi all'agire di un gruppo ertosi ad arbitro in terra del bene e del male e il denunciare una pratica umanamente e giuridicamente ingiusta, il percorso in realtà risulta fin da subito tracciato e il dramma interiore su cui si vorrebbe fare leva si rivela inesistente. Il film infatti ha già da subito ben chiare le posizioni da prendere e lascia poco spazio alla difficoltà di capire un protagonista che all'interno del suo gruppo è più un pesce fuor d'acqua che un individuo da una parte integrato dall'altra respinto, un reietto più che una figura a cavallo di un confine tra due scelte morali da prendere. In questo modo il dilemma tra cosa sia giusto e cosa sia sbagliato non prende mai corpo, ciò che è giusto è giusto è giusto fin da subito, ciò che è sbagliato è sbagliato fin da subito, e questo limita il film, che prende come punto di vista quello del dissidente, togliendo lo spazio a un dilemma che vorrebbe esserci e lasciandolo unicamente al dramma, alla sopravvivenza – quasi sotto copertura dopo la soffiata – all'interno di un gruppo a lui totalmente avverso.

«È questa la chiave: il gruppo. Una volta che capisci questo puoi sparare a qualunque persona. E dormire sonni tranquilli.» afferma uno dei soldati carnefici riassumendo l'intero sistema comportamentale che vige nel plotone. Ma c'è ben poco di più a supportare questa dichiarazione e ad animare il mondo ricreato, grazie a un introspezione psicologica dei personaggi non non sufficientemente approfondita - inevitabile il confronto con Vittime di guerra – e prove attoriali eccessivamente piatte – su tutti un Alexander Skarsgård più monoespressivo che mai. Se tutto ciò era perdonabile nel documentario omonimo del 2013, che grossomodo si limitava a un'oggettiva esposizione dei fatti, diventa un grosso problema nell'adattamento a fiction della vicenda, dove un punto di vista interno alla vicissitudine e l'inserimento in un contesto rappresentato richiedono una caratura dei personaggi che non si limiti allo stereotipo – controesempio: Platoon.
I canonici grossolani cartelli finali, che ci informano in poche righe sul destino dei protagonisti, a chiudere frettolosamente un film che così si riduce a porre poche domande e dare molte risposte. Anche se una domanda, sebbene involontaria, riesca a porla: perché continuano a lasciar lavorare Alexander Skarsgård?