TRAMA
Dagli anni ’50 alla morte, avvenuta nel 2003, la vita di Frank Sheeran, sicario della mafia, amico di Jimmy Hoffa, sindacalista.
RECENSIONI
L’idea di Scorsese che sta alla base di The Irishman è abbastanza chiara: girare un film(one) che in un certo senso lo ricapitoli e lo consegni ai posteri. O meglio: che ricapitoli il suo cinema più tipico, quello al quale lo si associa a livello subliminale, ossia il gangster movie di ambientazione mafiosa, che vede i suoi prodromi in Mean Streets, si perfeziona e si cristallizza con Goodfellas per poi auto-chiosarsi nello scintillante ma già pleonastico Casino. Ecco, The Irishman dovrebbe essere il definitivo suggello, il testamento di “quello Scorsese lì”. La prima considerazione da fare, che non vuole essere tendenziosa né, tantomeno, irrispettosa, è che si tratta, come tutti i testamenti, di un qualcosa che viene redatto in età avanzata. Martin Scorsese (79) chiama a raccolta i suoi attori più o meno feticcio, ossia Harvey “Charlie Cappa” Keitel (80), Robert De Niro (76), Joe Pesci (76) più la new entry Al Pacino (79) per girare un film seguendo i ritmi del cuore di una certa età. È lui stesso a dichiararlo, in uno speciale di Netflix, insieme a tutti i protagonisti del film. Che scherzano anche sulle loro movenze da quasi ottuagenari intrappolati in fattezze de-aged digitalmente dalla Industrial Light and Magic. Vero. Spesso l’effetto è straniante ma, in un certo senso, coerente con il film.
Perché The Irishman è, in effetti, un Goodfellas dilatato e rallentato, in un certo senso arricchito in termini di grandeur e ambizione ma più morigerato (indebolito?) in relazione al vigore, anche stilistico. Dopo il piano sequenza iniziale, con il quale Scorsese ci porta dentro il film/ospizio e che rimanda – vagamente ma direttamente - al long take che nel 1990 accompagnava Ray Liotta e Lorraine Bracco all’interno del ristorante, il film si affida progressivamente a una regia composta, classica, lontana dall’inventiva visiva (quasi ipertrofica, nel caso di Casino) dei precedenti di riferimento. Niente di male, ovviamente, e comunque suscettibile di sovrainterpretazione virtuosa: The Irishman è l’(auto)omaggio elegiaco a un cinema che non c’è più, elogio funebre più che orgogliosa, per quanto definitiva (nel senso – anche - di ultima), riaffermazione. La tensione carsica ma costante che scorreva in Goodfellas e Casino, quel senso di continua implosione pronta e esplodere, incarnata nei personaggi di Joe Pesci, che rendevano quello di Scorsese un cinema vitale e potente, qui lasciano il posto alla riflessione, al rimpianto. E non è un caso che il Russell Bufalino interpretato dal citato Joe Pesci venga presentato come il corrispettivo negativo di Tommy DeVito e Nicky Santoro: tanto questi erano gangster sanguigni, violenti e imprevedibili quanto quello è il malavitoso assennato e politico nelle sue dinamiche criminali. Banalizzando, ma non troppo, Tommy e Nicky non sono tecnicamente “cambiati” ma sono inevitabilmente invecchiati. E sono diventati Russell.
The Irishman è, dunque, Russell. E’ sempre un Gangster (Movie) ma è cresciuto, non solo nel minutaggio, ha messo (relativo) giudizio e ora ha più cose da raccontare, più storie e più Storia (Kennedy, Hoffa, il sindacato, la baia dei Porci). Ma ci rimette in solidità, compattezza e rischia di diventare un oggetto abnorme che, come si diceva una volta, rischia di piegarsi sotto il peso delle sue ambizioni. Nella parte centrale, sezione più storica e politica, con protagonista Jimmy Hoffa, Scorsese vira troppo all’Affresco Americano tipo Oliver Stone, rischia di sovraccaricare lo spettatore di informazioni e perde un po’ il controllo della situazione. Il film si sfilaccia, sbanda, annoia, per poi riprendersi nella parte finale (tutta l’escalation di suspense umana ed emotiva che culmina nell’uccisione di Hoffa da Parte di Sheeran) che si chiude definitivamente, però, con un rischio di pietismo senile evitato per un soffio (ma comunque evitato).
Certo, si tratta di un bel film, ci sono momenti alti, indubbiamente bellissimi (la telefonata di Frank Sheeran alla moglie di Jimmy Hoffa) e De Niro trova il personaggio perfetto per dare un senso compiuto alla sua recitazione sempre più statica e rarefatta. Ma l’ultimo di Scorsese rimane un film smisurato, diseguale e forse incapace di giustificare a pieno i 210 minuti richiesti per poterne godere.
L'anno che volge al termine è stato, troppo in sordina, anno leoniano: di Sergio Leone ricorrono nel 2019 i 90 anni dalla nascita e i 30 dalla morte, anniversari di un regista che del cinema ha fatto la storia con una vita e una filmografia troppo brevi. In mezzo ai due estremi della sua vicenda umana si piazza il 1969 di cui Quentin Tarantino ha riscritto le coordinate in quello che si dichiara come l'omaggio a Leone (non certo il primo, ma il più strutturato) dal più fanatico dei suoi ammiratori: C'era una volta a... Hollywood, opera che, nel raccontare il crepuscolo e la rinascita di un attore, nel mettere in scena la (letteralmente) salvifica importanza dei body double, delle controfigure e degli stunt, parla (anche) di un cinema che non c'è più. Anche il film di Tarantino si sarebbe potuto intitolare C'era una volta un certo tipo di cinema, il titolo "alternativo" che Sergio Leone attribuiva al suo capolavoro e involontario testamento, C'era una volta in America. Ma sugli schermi è arrivato quest'anno un altro film che ha in filigrana il medesimo titolo alternativo, il C'era una volta un certo tipo di cinema di Martin Scorsese, The Irishman. Un'opera crepuscolare e monumentale quanto C'era una volta in America, che come esso si dipana su più piani temporali, che parimenti rimette in scena la Storia degli Stati Uniti filtrandola attraverso il ricordo di un gangster. Il legame tra i due film nasce da rime evidenti, estetiche ma pure cronachistiche: a Jimmy Hoffa era ispirato il personaggio di Jimmy O'Donnell, il sindacalista spalleggiato dalla mala interpretato nel film di Leone da Treat Williams (personaggio il cui nome per esteso è Jimmy Conway O'Donnell, proprio come il Jimmy Conway incarnato da Robert De Niro in Quei bravi ragazzi di Scorsese... ma fermiamoci al primo livello di vertigine); e alla sparizione misteriosa di Hoffa fa eco il sinistro suicidio del senatore Bailey/James Woods, che si "smaterializza" dentro un camion dei rifiuti (una delle teorie sul cadavere di Hoffa voleva che fosse stato "smaltito" appunto con un camion, in una discarica di Detroit). Le suggestioni sono anche extra-filmiche: 35 sono gli anni trascorsi tra l'uscita di C'era una volta in America e quella di The Irishman, esattamente come sono 35 gli anni che, nella finzione del film di Leone, trascorrono fra i due piani temporali principali, fra il 1933 della fuga di Noodles e il 1968 del suo ritorno a New York. L'arco di tempo che, in C'era una volta in America, separa l'illusione dalla disillusione, l'ambizione dal desiderio di morte; la realtà dal sogno, perché tutto il segmento del 1968 potrebbe essere solo frutto del sonno drogato di Noodles nella fumeria d'oppio. In The Irishman i rapporti sono ribaltati: la narrazione parte da una casa di riposo, da un presente dove la morte è la realtà assodata, perché l'unico rimasto in vita è Frank Sheeran, i cui ricordi tornano indietro al passato remoto, agli anni 50 in cui comincia a lavorare per il boss Russell Bufalino. Ma quella memoria, i suoi protagonisti, si presentano come fantasmi, spettri in sofisticata computer grafica: Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino sono stati ringiovaniti tramite la tecnologia del de-aging, lo spettatore sa bene che i loro volti reimmaginati per essere più giovani di 30 o 40 anni non sono mai esistiti con quelle fattezze. Esattamente come non è mai più esistito il Robert De Niro invecchiato dal trucco in C'era una volta in America: l'anziano Noodles immaginato da Sergio Leone non somiglia all'anziano De Niro attuale, il procedimento inverso (De Niro quarantenne chiamato a interpretare un settantenne) era affidato a un make up volutamente discreto, proprio perché la resa dei conti di Noodles nel 1968, forse, non è mai avvenuta, ed è solo immaginazione. Tocca ancora a De Niro, allora (ma in C'era una volta in America, in un ruolo minore ma cruciale di freddo doppiogiochista, c'era pure Joe Pesci, ed è importante ricordarlo), fare da traghettatore, da viaggiatore nel tempo, da sutura tra due Americhe e tra due immaginari non più conciliabili. Ed ecco la rima più evidente: quella delle soglie nel film di Scorsese, tutte quelle porte lasciate aperte, o meglio socchiuse da Sheeran, nell'appartamento di Hoffa e poi nella casa di riposo, inquadrature che sembrano evocare esplicitamente le soglie varcate da De Niro/Noodles nel film di Leone: la porta della stazione di New York da cui scompare e riappare in un'ellissi memorabile, la porta segreta da cui si defila nella notte, dopo il confronto con Bailey/James Woods, l'oblò e la feritoia da cui sbircia le donne della sua vita...
Anche Sheeran, come Noodles, per lungo tempo non è che un voyeur: è qualcun altro a prendere le decisioni, lui è un mero esecutore, uno che "pittura le case", consegna ambasciate, silenzia bocche scomode. Non ha deciso lui, non è l'autore della sua storia, è un mero depositario del fatidico messaggio con cui tutto cambia, "it's what it is": come a dire che le cose così stanno, non ci si può far nulla. È inerte, corpo morto, davanti alla Storia che gli si dipana davanti, e l'ambigua natura che ammanta questi attori-fantasmi, protagonisti dei suoi ricordi, amplifica la sua angoscia nel constatare che ormai, morti tutti i suoi coetanei, nessuno si ricorda più di Jimmy Hoffa, come se non fosse mai esistito. Come se fosse vissuto e morto invano, come se tutta la sua storia, ma pure la Storia, non fosse che un racconto sfuggente, o forse solo un sogno: se C'era una volta in America era un grande film sulle bugie che l'America si racconta, per mezzo del Mito, del Sogno americano, dell'immaginario cinematografico, che Leone smontava e seppelliva in un funereo viaggio al cimitero, The Irishman è un altro viaggio nel rimosso e nelle bugie, nelle verità che Sheeran non riesce a dire (a Hoffa, su Hoffa, sulla sua morte), e che l'America non riesce a metabolizzare. C'è JFK lì dietro, l'altro (il vero?) irishman del film, la sua morte e i suoi legami con la mafia, la mano di Hoffa, le teorie complottiste... Tutta la Storia e le storie di cui Sheeran è stato voyeur ed esecutore, senza veramente agire per cambiarle. C'è, soprattutto, il vuoto di quello che l'America poteva essere, l'America di Kennedy che è stata stroncata sul nascere: come in un ribaltamento di 22/11/'63, il romanzo (poi miniserie tv) di Stephen King in cui si immagina un viaggio nel tempo per impedire l'omicidio di JFK, in The Irishman invece si parte e si termina in un presente (i primi anni del nuovo millennio, prima della morte di Sheeran) in cui quella eventualità, l'illusione di un'America alternativa e presunta liberale, non è nemmeno più contemplata, in cui l'America di Hoffa e JFK è illeggibile per le nuove generazioni.
E allora il viaggio nel tempo da fermo di Sheeran, la sua immobilità fisica mentre rievoca questi spettri davanti ad ascoltatori (spettatori?) più giovani, corrispondono all'inerzia e all'ottusità di un'America che, insieme alla sua industria cinematografica, non sa più guardarsi indietro, non sa conoscere il passato, ma che tuttalpiù lo riscrive con ludica avventatezza: come accade in tanti dei film supereroici di cui Scorsese si è lasciato eleggere primo detrattore nei mesi precedenti l'uscita di The Irishman. Il suo film è l'anti-Avengers soprattutto per questo: perché non c'è viaggio nel tempo, non c'è schiocco di dita (alla Endgame) che tenga, non c'è modo di riplasmare gli eventi né di resuscitare i morti. Bisogna farci i conti. Stare seduti a guardare, per molto tempo (almeno per 210 minuti), vedere che le cose così sono andate. It's what it is.