Drammatico

THE INVADER

Titolo OriginaleTHE INVADER
NazioneBelgio
Anno Produzione2011
Durata95'
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Bruxelles: un immigrato, la ricerca di vendetta per la morte di un amico, la passione per una donna, le strategie di sopravvivenza.

RECENSIONI


Esordio nel lungometraggio (e nell’ufficialità del cinema istituzionalizzato) per il videoartista Nicolas Provost, atto conclusivo di un corteggiamento inesausto, essendo parte dell’arte di Provost lavoro di secondo grado (rielaborazione, concettualizzazione) su immagini cinematografiche (da Papillon d’amour a Long live the new flesh) e (altra parte) riorganizzazione di realtà date secondo modalità cinematografiche (la trilogia Plot point), in un gioco ricombinatorio in cui lo scorrere della vita reale finisce per mimare generi e atmosfere bigger than life. In questo territorio sospeso, costantemente irrequieto verso gli steccati, Provost ambienta anche la propria idea di cinema narrativo: e dunque lavora sul territorio astratto dello stereotipo, dell’immagine semplificata, della presunzione dell’universale per metterne in luce il lato perturbante: affronta la questione dello sguardo sull’Altro, in questa storia di tentata integrazione di un migrante africano nella civiltà (e nell’immaginario) occidentale, sposando con frequenza idee narrative stantie, luoghi già visti, figure portate alla saturazione (la metafora cristologica, ad esempio, messa in scena in un’immagine folgorante e poi dispersa, il luogo comune della virilità nera inverato in bella calligrafia visiva, la descrizione stereotipata della condizione clandestina etc), senza nemmeno l’alibi dell’ironia, ma anzi con la pretesa della letteralità (i primi minuti in cui la donna occidentale come oggetto del desiderio è detto dal primo piano di una vagina, dallo sguardo di Mamoud/Obama verso la Femmina, dallo schermo che si apre in due), in un flusso disturbante, sfuggente, ideologicamente ambiguo, in un’amoralità che desertifica ogni pregiudizio messo in scena nella contraddizione, e che diventa luogo fertile di domande etiche per lo spettatore. Non dunque uno sguardo liberato dallo schema dominante, ma l’accumulo di schemi, di modi di guardare all’Altro, affestellati in una visione stupefacente, ammaliante ed estetizzante (coerentemente: si recita nel teatro del simbolico, c’è poco di tangibile, basti vedere la grande metafora/svolta finale). Gioco di superfici mai profondo, eppure scardinante, in perfetta aderenza a un modo di intendere l’arte contemporanea come ricontestualizzazione sottile e provocatoria, situazionista e apparentemente gratuita. Satira a bocca chiusa e occhi spalancati.