TRAMA
Inghilterra 1939: il matematico ventiseienne Alan Turing viene assoldato dall’esercito britannico per decifrare il codice nazista Enigma, passo fondamentale per vincere la guerra.
RECENSIONI
Non siamo coinvolti nel gioco di Turing. A simbolo dell'adattamento del libro di Hodges, infatti, si può indicare la totale estraneità degli spettatori dai games del matematico: Turing si cimenta con complessi enigmi che non vengono mai proposti a chi guarda. Se era impensabile una ricostruzione filologica del 'problema più difficile del mondo', qui si traspone la figura del crittografo ma non la sua arte della decrittazione, neanche attraverso uno smontaggio di Enigma e una sua riconfigurazione più simbolica/leggibile su pellicola. Vediamo solo schemi di cruciverba e codici cifrati: Turing risolve enigmi, noi ne siamo esclusi. E questa esclusione, a favore di un'impaginazione comprensibile e immediata, già indica gli obiettivi: una celebrazione in solida confezione inglese, che parte dalle asperità e segue una retta fino alla gloria (che prevede la morte), biografia per appassionati che solletica apertamente i fan di Turing (basti vedere la scena delle mele, un innocuo inside joke). Ogni ostacolo, seppure soffrendo, viene scavalcato, ogni dilemma trova soluzione. Cumberbatch offre la solita 'grande interpretazione' (e solleva la solita domanda: quanto è davvero difficile interpretare un eroe?), la Knightley e Goode gli fanno da professionale contorno senza niente di particolare da segnalare. Premio del pubblico a Toronto, odore di Oscar, tutto previsto.
Nelle pieghe del film di Tyldum c'è però un percorso sotterraneo. E' il paragone evidente che si instaura tra Christopher, amore di gioventù, e la macchina di Turing che porta lo stesso nome: Alan la costruisce (anche) per 'trattenere' l'amante scomparso e gradualmente, mentre prende forma, rivede l'amore passato. In tal senso, proprio graficamente, il corpo della macchina è il corpo di Christopher: i fili sono le vene, le bobine il cervello, i collegamenti lo sviluppo del pensiero. La decifrazione del codice il prodotto del suo ingegno. «Non potete portarmela via», grida Turing alle autorità, esplicitando la sua sostanza di correlativo oggettivo, in una battuta da leggersi come: non voglio perderlo due volte. E ancora «Non posso stare senza di lei», ammette infine con Joan/Knightley quando, dopo la castrazione, paradossalmente può intrecciare con la macchina un rapporto vero, lontano dalla sessualità tangibile: alla domanda «una macchina può pensare?» la risposta è «può pensare in modo diverso».
Il rovello turinghiano, l'ambizione di rendere razionale (e dunque vivo) un congegno meccanico, è nient'altro che il desiderio di resuscitare l'amato mediante la sua 'messa in macchina'. Nell'ipotesi di un'origine sentimentale del futuro computer, e non solo scientifica, sta la rilettura del genio tecnico in chiave umanista, in particolare nell'amore di un uomo verso un uomo: per questo The Imitation Game non è solo una biografia vicina al film di spionaggio, è anche una love story che racconta l'impossibilità di ri-formare un passato scomparso per interposta invenzione. Non a caso Turing alla fine tocca il corpo della macchina cercando l'amato, la perlustra con le mani come fosse un corpo vero, e poi la luce si spegne. Il suo Euridice è destinato a svanire: una macchina può risolvere un mistero, ma non restituire un amore. Il resto è un convenzionale biopic.
Al detective che lo arresta e lo interroga, dopo aver raccontato la propria vita e le ‘scomode’ opere, Turing chiede se lo vede come un uomo o come una macchina: poco prima cercava di convincere l’interlocutore che anche la macchina pensa ma in modo differente, sottintendendo la percezione che ha degli omosessuali un’epoca che li perseguita. Il testo dell’esordiente Graham Moore, mutuato dal libro di Andrew Hodges (“Alan Turing - storia di un enigma”), è tanto generoso in annotazioni stimolanti quanto furbo nel seguire il manuale per un’esposizione che, elegantemente, forzi la materia per fare elegia del personaggio e di ciò che rappresenta (questione di modi, non di sostanza). La regia del norvegese Morten Tyldum, fattosi notare (non in Italia) con Headhunters nel 2011 e al debutto in lingua inglese, segue la scia: eredita la fantomatica messinscena “accademica” inglese e cavalca l’onda della sottolineatura enfatica, della carineria, del clamore. Un peccato, perché la prova di Benedict Cumberbatch è superlativa e il racconto è di un certo peso nelle sue implicazioni e rivelazioni, nel suo far riflettere non tanto su di un eroe secretato come i messaggi che cercava di decifrare, ma su di una figura che, trasversale alla Storia, salva il mondo in virtù di un differente modo di ragionare. Turing diventa il simbolo di una diversità che la società condanna e teme da sempre, e la sua esistenza ha del paradossale: in quanto “mascherato”, ha subito sia la via dell’eroe sia quella del reietto, stile Gesù (il governo inglese si è scusato per il trattamento a lui riservato solo nel 2009). Se questi temi non fossero stati strumentalizzati per ribadire quanto fosse geniale, ingiustamente perseguitato e vessato fin da piccolo, sarebbe stato un grande film su A Beautiful Mind.