Drammatico, Recensione

THE HUNTER

Titolo OriginaleShekarchi
NazioneGermania/Iran
Anno Produzione2010
Durata92'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Ali è appena uscito di prigione. Lavora di notte ma cerca di passare tutto il tempo che può con la famiglia. Ha anche ripreso il suo hobby: la caccia. La vita dell’uomo viene però sconvolta della morte accidentale della moglie, colpita da un proiettile durante una sparatoria, e dalla conseguente scomparsa della figlia. La frustrazione e l’orrore crescono nell’uomo dopo essere stato alla stazione della polizia. Ali decide allora di imbracciare il fucile e si spingerà oltre il limite…

RECENSIONI

Shekarchi (The Hunter) è una parabola sull’inadeguatezza dell’uomo di fronte all’imprevedibilità degli eventi, anche nell’atto potenzialmente più deterministico, quello di uccidere un suo simile. Gli omicidi che marcano la pellicola sono sempre provocati dal proiettile di un fucile, ma se l’uomo ci mette il braccio il disegno di morte è prerogativa della fatalità.


La componente politica, sempre palpabile nel cinema iraniano, pare qui assumere un ruolo di supporto, quello di assecondare la beffarda ironia del caso nei confronti della volontà umana. La Polizia, onnipresente, onnisciente, crea come un cerchio invalicabile e claustrofobico all’interno del quale il protagonista districa le proprie azioni in mezzo a una giungla di automobili come ad una di alberi. Ma la pressione del grilletto che segnerà le sorti del protagonista, unica circostanza letale in cui intenzioni ed effetto sembrano coincidere, è anch’essa frutto del caso: Alì, appostato in cima a una collina che domina l’autostrada in preda ad un desiderio di cieca vendetta, non delibera di sparare ad una macchina della Polizia, presunta origine della morte di moglie e figlia; punta l’arma su un’anonima automobile rossa, ma non ha il tempo di mirare con precisione prima che sia troppo lontana, solo alcuni istanti dopo vede l’auto con la sirena, la sceglie, e si condanna. Paradigmatica dell’assunto una sequenza di caccia: inquadratura frontale sul cacciatore che prende la mira tra due alberi; stacco e soggettiva dal fucile, si vedono due alberi ma in mezzo niente, poi due colpi riecheggiano nel bosco: si sa chi spara, non si sa chi sarà colpito.


Corollario di questa scissione tra volontà e accadimenti è l’annullamento delle categorie morali: il giusto e l’ingiusto, il “bene” e il “male”, sono anch’essi relativi e fortuiti. Il poliziotto corrotto e violento vuole giustiziare Alì, il riservista compassionevole vuole salvarlo, ma sarà quest’ultimo ad ucciderlo per un fatale errore, dopo un imprevedibile ribaltamento delle parti tra cacciatore e preda. Dunque la morte come fine di un gioco di ruolo dov’è il caso a giocare e a decretare i ruoli, tanto che il poliziotto “buono” dirà ad Alì: “ciò che è accaduto a te potrebbe accadere a me”.


Pitts, regista iraniano ma di formazione europea (ha lavorato, tra gli altri, con Godard) spiazza lo spettatore scomponendo il tessuto tramico in due parti strutturalmente distinte, al punto da renderle quasi film a se stanti: nella prima, ambientata a Teheran, predilige i campi medi sul protagonista, carrelli e soggettive, allo scopo di seguirne le (re)azioni agli eventi e ad esaltarne al contempo la solitudine (emblematica l’inquadratura di Alì in secondo piano che riconosce il corpo della moglie all’obitorio), adottando registri cromatici di stampo espressionista, caratterizzati da ipersaturazione, specie nei desolati paesaggi urbani notturni, con dominanti verdi (interni) e blu/rossi (esterni), e da un sorprendentemente incisivo impiego delle luci che esalta i chiaroscuri e congela le superfici riflettenti.
Nella seconda i piani lunghi e lunghissimi sui due poliziotti e il cacciatore sperduti sotto la pioggia in una labirintica sinistramente silenziosa foresta, a sottolineare la risibile piccolezza umana, assurgono ad una dimensione quasi tarkovskiana, fino a testimoniare in un’inesorabile panoramica l’esito tragico di un gioco al massacro tra microbi.