Horror

THE HORDE

TRAMA

Determinati a vendicare un collega ucciso da una banda di criminali, quattro poliziotti armati fino ai denti partono in spedizione punitiva verso la banlieue nord di Parigi. Ma le cose vanno di male in peggio: l’assalto si trasforma in débacle e un’orda famelica di zombi assedia l’edificio. Non resta che accantonare le beghe interne e combattere spalla a spalla il nemico alle porte.

RECENSIONI

Spostamenti di massa

Parigi è in fiamme. Colonne di fumo, fuoco e morti viventi incombono su una piccola armata di sopravvissuti composta da flic, delinquenti di periferia e panciuti veterani di guerra. Paradossalmente, una fatiscente torre di cemento di una cité HLM diventa la roccaforte nella quale asserragliarsi e dalla quale respingere gli aggressori provenienti dalla città benestante. Come i borghesi parigini temono la calata in centro dei banlieuesard, così questa improvvisata comunità di derelitti teme la salita degli zombi che da Parigi si irradiano verso la periferia. Distorsione sociale che esemplifica perfettamente la strategia dislocante di The Horde: la manipolazione ludica di materiale derivato sia dall'horror americano (Carpenter e Romero) sia dalla Nouvelle Trouille francese (Alexandre Aja ma soprattutto Xavier Gens, anche produttore esecutivo) è la tattica principale utilizzata da Dahan e Rocher per iniettare massicce dosi di ironia grottesca nel tessuto del film.

Spostando e accelerando i cliché dei generi frequentati (polar nel primo rullo, horror nei successivi), Yannick Dahan e Benjamin Rocher, assistiti in sede di sceneggiatura da Arnaud Bordas e Stéphane Moïssakis, esasperano lo spirito di corpo dei poliziotti (incattivendolo nel concetto vendicativo di “famiglia”) e iperbolizzano la pericolosità degli zombi (veloci e forzuti come neanche gli infetti di 28 giorni dopo di Danny Boyle). Così esagerati e gonfiati, gli stereotipi dei generi di riferimento (la sostanziale identità tra poliziotti e delinquenti, l’eroico sacrificio per coprire la fuga dei sopravvissuti) si prestano naturalmente a degenerare in situazioni che flirtano con la caricatura e virano nell’humour nero: nessun problema di accettabilità allora nell’osservare i flic in passamontagna che vedono fallire il loro agguato per l’inopportuno intervento di un guardiano forcaiolo, nessuna stonatura di registro nell’assistere alle raffiche solitarie di un ex colonialista che, mitragliatore in pugno e bomba a mano in bocca (di uno zombi), si immola gridando slogan up-to-date.

Eppure non siamo ancora in territorio parodistico: l’intento di The horde non è quello di divertire lo spettatore irridendo i cliché visitati, ma di coinvolgerlo manipolandoli spregiudicatamente. Detto altrimenti, gli stereotipi non crollano sotto i colpi del sarcasmo, ma ondeggiano plasticamente alle scosse d’ironia. La stessa strategia iperbolica e dislocante coinvolge messa in scena e casting: se nel primo rullo Dahan e Rocher enfatizzano la solidità visiva del polar con particolari granitici (si veda l’incipit) e inquadrature sontuose (la sequenza del funerale), in quelli successivi è l’ipercinetismo à la Frontière(s) a essere potenziato (la lunga fuga negli scantinati dell’edificio), senza peraltro – e deliberatamente - raggiungere il gore fuori parametro del film di Gens. Spostamento che investe in pieno la scelta degli attori, vere e proprie permutazioni in carne e ossa degli interpreti più emblematici della Nouvelle Trouille (“Nuova strizza”): Jean-Pierre Martins (Ouessem) è una sorta di Samuel Le Bihan (Frontière(s)) ancora più rozzo e imbolsito; e Yves Pignot (René) non può non ricordare Philippe Nahon (Alta tensione) ma più ventripotente e agguerrito. Il gioco manipolatorio col repertorio horror francese raggiunge infine il parossismo nella vendetta a mani nude di Adewale (Eriq Ebouaney): ricordate come Albert Dupontel sfondava il volto del presunto stupratore della Bellucci in Irréversible? Non è sulla faccia del Greco (Jo Prestia) che Ade si accanisce fino a ridurla in poltiglia, ma su quella del Tenia. Giustizia è fatta, per interposta pellicola.

Zombì

La “nouvelle vague transalpina" continua a sfornare nuovi talenti. È questa la volta dei due giovani Yannick Dahan e Benjamin Rocher, alle prese con il primo film francese di zombi. Da George A. Romero in poi in tanti si sono cimentati nel sotto-genere. Il debutto della Francia gode delle lezioni del passato e di una rielaborazione personale che spinge i due registi a limitare la narrazione all'essenziale per concentrarsi quasi esclusivamente sul massacro. Il lato umano vede fronteggiarsi da una parte poliziotti corrotti e dall'altra delinquenti psicopatici. L'arrivo improvviso degli zombi, nel condominio disabitato in cui i due opposti (ma non troppo dissimili) schieramenti si fronteggiano, obbligherà le parti a un accordo per cercare nella coesione la forza per uscirne vivi. Come il genere impone, a salvarsi saranno in pochissimi e le morti saranno dettagliate con gusto più ludico che sadico. Imperdibile uno dei personaggi in cima a un'auto circondata da centinaia di morti viventi che venderà cara la pelle prima di farsi sbranare, così come non possono non attirare le simpatie del pubblico gli eccessi del vecchietto ex veterano di guerra (figura immancabile negli horror) che pare ottenere dalla battaglia un godimento a stretto confine con quello sessuale. C'è voglia di splatter, di tensione, di gore, tanto estremi quanto liberatori. Chiariamolo subito: il film non inventa nulla dal punto di vista visivo. La velocizzazione degli zombi era già stata utilizzata da Danny Boyle in 28 giorni dopo (che per il resto pescava anche lui a piene mani dal passato), la desaturazione dei colori e la potenza degli effetti sonori sono mode quasi usurate nel loro costante ripetersi, per non parlare del cinismo di fondo che propone l'egoismo come comune denominatore delle relazioni umane. Poi ci sarà anche chi parlerà di un risvolto politico, come tutte le volte in cui non si ha il coraggio di dire che gli horror piacciono proprio per quello che mostrano e non per ciò che metaforicamente rappresentano. In ogni caso il film di Yannick Dahan e Benjamin Rocher non pare ambire all'allegoria ma sembra porsi come unico obiettivo, con molta onestà, l'ultraviolenza fine a se stessa. Una coerenza stilistica che scuoterà le anime giudicanti ma permetterà agli altri di divertirsi.

La Francia (qui c’è Xavier Gens come produttore esecutivo) sta diventando l’epicentro del genere: i due esordienti firmano un horror sorprendente che, pur imbastito su stilemi tipici del genere zombi, fra Romero e rilettura alla Danny Boyle, li esasperano triplicando il sangue, la portata del massacro, gli atti violenti, l’adrenalina in circolo, la tensione ordita, la paura, il disgusto, come novelli Herschell Gordon Lewis senza intenti parodistici, se non in quella scena troppista del poliziotto che, da solo, affronta centinaia di morti viventi e, dopo uno sfondamento da football americano, li accoglie sul tetto di un’automobile manco fosse ad un concerto rock sui generis. Ci sono, almeno, due trovate notevoli della sceneggiatura: innanzitutto, il prendere le mosse dal polar in zona L'Odio, mettendo in campo un’umanità assetata di sangue, dove c’è peggio al peggio (poliziotti sanguinari, criminali ancor più tosti, zombi inarrestabili); il discorso allegorico relativo è enunciato attraverso il tanto simpatico quanto rivoltante personaggio del reduce della guerra dell’Indocina, che equipara le fazioni amanti della prima linea, non a caso emarginate nel quartiere dei reietti della società bene. Poi c’è il messaggio insito nel finale, dove non è certo casuale chi la fa franca: i registi, che dimostrano una professionalità di messinscena rimarchevole, sovvertono una convenzione di genere per dire che, nella giungla della lotta per la sopravvivenza, sopravvivono i peggiori, i più opportunisti e, ahinoi, rappresentano il futuro dell’umanità.