Biografico, Drammatico, Sala

THE HAPPY PRINCE

Titolo OriginaleThe Happy Prince
NazioneGermania, Belgio, Italia, UK
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Il passato sfavillante e mondano di Oscar Wilde, il successo artistico, l’amore infausto con Alfred Douglas e la condanna al carcere, la tenacia della moglie Constance (Emily Watson), affiorano nel ricordo mentre, per le strade di Parigi, lo scrittore si aggira povero, malato, morente.

RECENSIONI

Il Wilde di Rupert Everett a partire da una digressione letteraria

«L'azione ignominiosa, imperdonabile ed eternamente disprezzabile della mia vita fu di avere accondisceso a rivolgermi alla società per ottenerne aiuto e protezione. Scendere a questo sarebbe stato un errore, dal punto di vista dell'individualismo, ma quale scusante invocare, dopo aver compiuto una cosa simile? Naturalmente una volta messe in moto le macchine della società, essa si rivolse contro di me e disse: “Come! tu hai vissuto fino ad ora disprezzando le mie leggi, ed ora vieni a domandarmi aiuto per mezzo di queste leggi stesse? Bene: ti saranno applicate col massimo rigore. Sarai obbligato a sottometterti alle leggi che hai invocato.” Il risultato è che sono in carcere.»

In carcere et vinculis: tale era la condizione dell’irlandese Oscar Fingal O'Flahertie Wills Wilde, in carcere e in catene, dove le catene erano quelle di sempre, quelle sociali, diventate materia, realtà della prigionia, raccontata e argomentata in una lunga lettera dall’abisso, De Profundis, come l’amico Robbie Ross volle intitolarla per la pubblicazione postuma, una volta espunto ogni riferimento al suo destinatario, quel famoso, rovinoso, irresistibile e insostenibile Alfred “Bosie” Douglas.

Vignetta satirica relativa al processo a Oscar Wilde nella Corte di Bow Street.

Questo testo affascinante, che emana dolore e retorica, rancore e lucidità, emergenza e eloquenza, è il ritratto di un Wilde all’apparenza distantissimo dal dandy irriverente col girasole all’occhiello che derideva il perbenismo britannico, di cui aveva preso di mira la “earnestness”, paradigma di affidabilità e ipocrita buon senso, e somiglia a un Wilde che, provato nel corpo e nella mente, si può letterariamente definire “notturno”, recuperando quel titolo poco noto e molto amato di un autore celebre che, se è destino dell’Italia post-rinascimentale quello di essere sempre un po’ provincia del resto del mondo -di Europa, al tempo, non c’era nemmeno l’ipotesi-, si può forse definire il nostro Superuomo di provincia e, certamente, la punta d’argento dell’estetismo della penisola, nonché suo ultimo Vate possibile: in Notturno, 1921, il Gabriele D’Annunzio trionfalista e interventista, fiaccato da una temporanea cecità, si offre nel suo lirismo più intimistico, dolente, autentico.
Per quanto siano casi differenti le ferite del più aristocratico dei poeti borghesi (e viceversa) che si fa male perché svolazza su aerei da guerra per eroismo e il dolore del Wilde vilipeso dal vittorianesimo che sconta due anni di lavori forzati per omosessualità, la matrice estetizzante della letteratura che ne deriva è la medesima e, nell’uno come nell’altro, si esprime nella fuga dal costume ordinario, nella ricerca di quell’ “ulteriore” –gesto, parola, modo, pensiero- che fa l’arte.
D’Annunzio, nella sua troppo piccola società, sguazzava; Wilde la detestava, la canzonava, ne osservava la compiaciuta ridicolaggine, ma fra teatri, caffè, alberghi, nell’esercizio della sua critica di costume, aveva trovato una propria collocazione, nel suo farsi beffe del mondo, aforizzandolo, viveva una vita aforistica (pur non avendo mai effettivamente scritto un libro di aforismi). Gli rimproverava, infatti, Eco, l’attitudine alla massima perfettamente formulata che, rovesciabile in paradosso, si svelava più estetica che etica, più satirica che ribelle.
La domanda, in tutto questo, è la stessa che si pose Adelia Noferi a suo tempo, ovvero quanto la “notturnità” sia un’espressione dolente e sincera e quanto evidenzi piuttosto un trasformismo in cui nulla del vero cuore originario dell’autore viene effettivamente negato.
Qual è, allora, il vero cuore di Wilde? E la risposta è semplice, probabilmente, perché la offre lui stesso in forma di metafora, in quel Principe Felice, statua disdegnata e tradita da un paese ingrato, fusa e sostituita con quella del sindaco, il cui cuore, pur spezzato, non fonde. Un cuore dolente e altezzoso, la cui nobiltà è annientata dal pragmatismo amministrativo borghese, ma vince nello spirito.
Sarebbe opportuno allora non leggere e osservare il Principe Felice di Rupert Everett come un semplice Wilde umanizzato, ricondotto al suo quotidiano, alla carne e ai liquidi organici fino al letto di morte, ma vedere in questa esibita bruttezza tutt’altro che l’uomo dietro l’autore, ma l’autore che si fa uomo, cristologicamente incarnato nel suo ruolo fino a patirne le estreme conseguenze, e riscontrare nel volto flaccido, malato e posticcio dell’Everett-Wilde, non la schiettezza dell’uomo martoriato, ma un’estetica dell’antiestetico, costruita fra sgradevolezza delle immagini e brillantezza dei dialoghi: “in carcere ho trovato Cristo” / “per cosa era dentro?”, basta probabilmente come esempio e sintesi di questa passione letteraria teatralmente messa in film, per così dire.
Che tutto ciò ne faccia un buon film o no, è altra storia, meno interessante, anche se di buon film si tratta, di un lavoro con un cuore (per l’appunto), ma non accorato, di un discorso sull’artificio, ma non artificioso, come solo un autentico wildiano potrebbe concepirlo.

Rupert Everett in scena nei panni di Wilde nella pièce di David Hare The Judas Kiss, Brooklyn Academy of Music 2016. Foto di Cylla von Tiedemann.

Il tempo presente (l’incubo), e il passato (il sogno della gloria che fu), si confondono come arte e realtà, mescolando due vite di uno stesso uomo in un’opera sola, due volti in uno, di cui l’attore e regista assume il peso.
Nonostante un certo macchiettismo (probabilmente voluto e divertito) delle scene napoletane, alcuni quadretti dei bassifondi dickensianamenti consunti e la generale difficile adesione sentimentale al film (che però nemmeno la cerca), il suo carattere emerge, attoriale seppur non autoriale, da quel grande attore che è Rupert Everett; che non fa l’errore che fu di Sybil Vane di sacrificare l’arte per l’amore: ricordiamo il personaggio di Sybil, la sublime attrice che incantò Dorian Grey con la sua performance e che, subito amata, lo ricambiò; ma la sua recitazione, diventata mediocre dopo il trionfo del sentimento amoroso, provocava l’immeditata disaffezione di Dorian e il conseguente suicidio della ragazza. L’esteta non accetta che la sua estetica sia deturpata. Così Oscar Wilde, nella citata epistola, rinnega il proprio legame con Bosie perché in esso non c’era niente che avesse a che fare con la contemplazione del bello (e tale imperdonabile errore appare a volte più tragico dell’esito carcerario di quella amicizia). È il caso di notare come nel film lo stesso volto di Bosie (Colin Morgan) sia ben lontano dallo splendore capriccioso del Jude Law di Wilde (1997) e impallidisca in una vacuità che lascia ben più spazio al Robbie Ross di Edwin Thomas, l’amico, il giornalista, il critico. L’arte viene prima dell’amore e della vita stessa per l’anticonformista Wilde che non manca comunque di ricordarci che «tutta l’arte è completamente inutile» (vedi Eco di cui sopra).

Illustrazione di Keith Negley per The Juda's Kiss, 2016

Everett lo sa. E sa inscenarsi al di sopra del dolore, pur essendovi calato dentro, assumendosi il rischio della mancata empatia spettatoriale, vestendo senza forzature gli abiti disegnati da Maurizio Millenotti e Giovanni Casalnuovo e realizzati dalla storica sartoria Tirelli, scelte che denotano un consapevole occhio di riguardo verso la scuola costumistica italiana.
Quella naturalezza e quel gusto attoriale nell'interpretare Wilde, emersi già a teatro dal 2012 nella pièce The Judas Kiss di David Hare, una volta conquistato il pubblico sono serviti a convincere anche i futuri produttori a finanziare il progetto del film. Così, dopo essere stato l’Algernon de L’importanza di chiamarsi Ernesto e l’Arthur Goring di Un marito ideale, Rupert Everett è Oscar Wilde stesso, anche al cinema. E merita la nostra attenzione, così come ha sempre saputo conquistarla.