TRAMA
Due mercenari europei arrivano in Cina in cerca della “polvere nera”, la polvere da sparo. Una volta raggiunta la Grande Muraglia rimarranno coinvolti nell’assedio contro un’orda di creature mostruose.
RECENSIONI
L’importanza di Zhang Yimou nella storia del cinema cinese è fuori discussione: è stato, nel corso di una carriera unica, Godard e Spielberg, De Sica e Rossellini, D. W. Griffith e Leni Riefenstahl. Con tali premesse – imprescindibili – anche un film dal soggetto demenziale come The Great Wall – mostri verdi che attaccano la Grande Muraglia – richiede la nostra attenzione critica e una contestualizzazione non superficiale delle questioni culturali che animano il progetto.
Si è molto dibattuto sulle mille facce del cinema di Zhang Yimou, interpretate all’occasione come una serie di evoluzioni, involuzioni o voltafaccia: gli esordi fra astrattismo estetico e etnografia (Sorgo rosso, Ju Dou, Lanterne rosse), i drammi neorealisti (La storia di Qiu Ju, Non uno di meno), il melodramma d’epoca (Vivere!, La strada verso casa, Lettere di uno sconosciuto), il cinema urbano (Keep Cool, La locanda della felicità), il wuxia nazionalista (Hero, La foresta dei pugnali volanti, La città proibita). Eppure c’è un elemento, un impeto, che unisce trasversalmente tutta la produzione del regista: la spinta verso un cinema che sia puramente transnazionale. Il concetto di “cinema transnazionale” – che comporta una riconsiderazione dei modi di produzione, diffusione e ricezione del cinema e dei concetti che veicola – è da anni al centro di articolate discussioni accademiche. Sorvolando sugli apparati teorici, il modo specifico in cui Zhang Yimou intende questa funzione, eletta ad obiettivo, coincide con la possibilità di attivare una auspicata comunicazione interculturale: nello specifico, attraverso la semplificazione (o svendita, o falsificazione, come affermano i suoi detrattori) di un’essenza culturale cinese resa fruibile per le platee mondiali.
The Great Wall è, in un certo senso, l’apice di questa ambizione: cast hollywoodiano, comparti tecnici internazionali (interessante notare come al montaggio e alla fotografia siano stati affiancati un cinese e un americano) e uno dei simboli per eccellenza della cinesità come protagonista: la Grande Muraglia. In un momento di eccesso fantasmagorico troviamo anche uno dei due mercenari – spagnolo – che inscena una corrida, incalzando un mostro verde sventolando un drappo rosso. Eppure, proprio raggiunto il punto più alto di questo percorso, Zhang Yimou sembra essersi spinto troppo in là, vanificando lo sforzo e finendo col farsi inghiottire da una macchina produttiva elefantiaca. L’imputato principale è il team di scrittura, composto da tre sceneggiatori tutti americani, che diluiscono la storia in un cerchiobottismo ideologico e narrativo che finisce col rendere sempre più innocua la già esile trama. È così che il cattivo occidentale aiuta i cinesi e li salva dalla minaccia aliena, ma è solo dopo l’incontro con la loro cultura che abbandona le meschinità e diventa maestro di virtù. Politicamente nullo, The Great Wall è di gran lunga il meno nazionalista fra i film di Zhang Yimou degli ultimi anni. Ma, con tutta questa cautela, è inevitabilmente anche il meno interessante: finite le coreografie, manca totalmente quel brivido di concettualismo reazionario che animava le architetture visive di Hero.
Anche la storia d’amore fra il mercenario Matt Damon e la generalessa cinese è annullata da un trattamento narrativo piatto e da una regia che sembra aver gettato la spugna di fronte a tanto nulla. L’attrazione fra i due non si avverte mai, ne veniamo a conoscenza solamente attraverso i dialoghi degli (altri) personaggi. La resa registica di Zhang Yimou la si avverte, in particolare, nella scena in cui la donna getta un’occhiata verso la schiena nuda e graffiata del mercenario. Il parallelo (perdente) si impone d’obbligo: in Sorgo Rosso, la sposa in portantina (una ben più carismatica Gong Li) scostava di poco la tenda e proiettava il suo sguardo desiderante sulla schiena nuda e sudata del servo (Jiang Wen). L’erotismo e la potenza di uno sguardo sensuale femminile che si impone su un corpo maschile, quasi oggettificandolo, consegna questa sequenza rivoluzionaria alla storia del cinema (non solo cinese). La fugace e sterile occhiata dell’eroina combattente è un triste contraltare; la schiena di Matt Damon un oggetto privato di senso.
Con una trama ai limiti dell’autoparodia e con dei costumi ancor più incredibili (power rangers meet cavalieri dello zodiaco), è il solo comparto visivo a sostenere il film. Le scene d’azione sono belle e, onestamente, nella sua demenzialità l’idea che dei mostri verdi possano attaccare la Grande Muraglia è genuinamente divertente. Il film si diverte meno, ci diverte quanto basta.
Ennesima opera pensata da Hollywood per il mercato cinese (che co-produce e fornisce location e attori). Il soggetto è, fra gli altri, di Edward – L’Ultimo Samurai - Zwick e il nuovo Tom Cruise è Matt Damon nella versione muscolare di Jason Bourne (fra gli sceneggiatori, il Tony Gilroy di The Bourne Legacy): co-sceneggiatori anche Doug Miro e Carlo Bernard, ovvero Prince of Persia e L’Apprendista Stregone, esperti di action fantasy. Tutto, cioè, secondo manuale. Un blockbuster con attacchi alla fortezza da Il Signore degli Anelli, con arrampicate di masse di mostri sulle mura da World War Z (non a caso, fra i soggettisti c’è Max Brooks), frullando azione, meraviglia e apologo morale. Stupisce che l’ex-autore (si dirà…) Zhang Yimou sia al timone di tale bagattella commerciale ma l’essere attrattivo-spettacolare non è il vero tallone d’achille del film e Zhang, confermandosi regista più di regime che dissidente, s’è difeso dalle critiche decantando un’opera aperta ai mercati internazionali, la più costosa mai assemblata dal suo paese e con il cast cinese più ampio. Il suo tocco apporta un gusto da colorato musical wuxiapan che non guasta: si diverte a dividere le masse di soldati in guerra in tinte unite secondo mansione, a farli correre sulla camminata delle mura in coreografie danzanti al suon di tamburo, a farli volteggiare in cielo con il bungee jumping. Il problema sta tutto nelle premesse e nel prendersi troppo sul serio. La parte “americana”, con i due furfantelli senza onore che pensano solo al profitto (…) contiene anche battute da buddy movie ma il tono generale è epico, il moralismo urla che di avidità si perisce, che combattere per una causa, avendo fiducia nel prossimo, è tutto. Arrivano i patemi e le tragedie di fronte al nemico, dimenticando l’assurdità di lucertoloni digitali che provengono dallo spazio da cui il muro si difende con improbabili e mirabolanti tecniche. Un tono più scanzonato e leggero avrebbe giovato.