TRAMA
Yip Man si racconta: da quando era a capo dell’associazione delle arti marziali, all’invasione giapponese che lo ridusse in povertà e distrusse i suoi piani di unire le scuole del sud e del nord, fino al suo amore con la figlia del patriarca dei Gong.
RECENSIONI
Pensato per 16 anni, lavorato per 8, presentato già in 3 differenti versioni (qui recensiamo quella europea), The Grandmaster è ciò che resta di un biopic, il residuo di un film storico (The Grandmasters, al plurale, doveva essere in origine il titolo internazionale), insieme di frammenti che richiama inevitabilmente un tutto, girato o non girato, traccia minuscola di Storia, e di Mito, e di Leggenda. Differenti versioni, stessa sorte: quella di opera/rovina, di film non finito, che racconta di un processo di costruzione simbolica in corso, architettura dopo la catastrofe, esperienza estetica del fallimento: potrebbero davvero essere infiniti, i film di Wong Kar-Wai, se non ci fosse il mercato a reclamarli, lacerti che portano con sé le cicatrici del montaggio, brandelli che dichiarano la loro inconcludenza, lo sperpero economico, la dispersione narrativa di cui sono frutto e precipitato (ed è proprio all’esatto opposto che sta la quadrata frammentarietà da youtube di un Sorrentino, con i suoi stralci spendibili sui nuovi media, cool e autosufficienti). Così, come e più di 2046, come e più di qualsiasi altro film di Wong, The Grandmaster è il risultato d’un eccesso (di Storia, di personaggi che la attraversano e, dunque, di attimi che li descrivono) che viene proposto allo spettatore come sperimentazione del difetto: ellissi e vertigini di tempo, nessi logici scardinati, gesti fondamentali bruciati per eccesso di velocità, incomprensioni, disorientamento.
E qui, nella sconfitta dell'epica, il cui respiro è continuamente troncato, c'è l'usuale rivolgimento all'intimità: perché da sempre, sin da quando, al principio degli Zero, lo chiamavamo «il maggiore cineasta del suo tempo», Wong fa un cinema umanista, brand di mistica urbana e glocale, ossessionato sì dall'euforia luminosa di spot e tv, magnetizzato dallo scintillare delle merci e precipitato nel vuoto delle forme della contemporaneità (come quel cinema che da Dillinger è morto porta a The Bling Ring), ma capace di sentimentalizzare il feticismo, di raccontare le emozioni legate a un oggetto, capace di affidarsi alla maniera di un'immagine compiuta e compiaciuta, ammiccante ed eccitante, per dilatarla e sformarla, raggiungendo un'emozione fuori dalla misura mercantile, inondando la poesia midcult delle piccole cose di un nuovo, contemporaneo, struggimento mélo. E amando il cinema per l'annichilente, istantanea meraviglia del suo ricatto emotivo, per l'estasi tracciata dall'immagine e scolpita semplicemente dal suono, frustrata dalle storie che racconta, dalla sua retorica sconfitta. D'altronde non è sempre stato questo un cinema dell'assenza, dell'incompletezza e del rimpianto, del desiderio trattenuto che inturgidisce le immagini? Non è questo il cinema della solitudine amorosa? Qui, in un film che abbraccia troppa Storia e troppe storie, è la danza di primi piani al di fuori di ogni grammatica dello spazio a fondarne uno interiore, dimenticandosi delle norme di costruzione di ogni luogo virtuale, e qui sono i ralenti e le sbavature luminose, l'incessante lirica banale della pioggia che cade, i riflessi sugli specchi, a farsi traccia di un tempo del cuore, a concentrarsi sui momenti, a scandagliarli mentre il ritmo della Storia, il suo incedere, è inevitabilmente perduto, come se ogni scena fosse una maceria, resto di un fraintendimento metrico, e insieme scavo in una storia personale, una pausa, un attimo sospeso.
Così, se è impossibile per lo spettatore coordinare il proprio sentimento a quello di un disegno complessivo che si vuole affresco ma si riduce a somma di bozzetti, è in ogni segmento narrativo che il cinema di Wong spreme l’emozione, lavorando poi eco su eco, come nel respiro corto di un commercial che s’accumula a un altro respiro, e a un altro ancora, scena dopo scena, scavo dopo scavo, maceria su maceria. Rovina su rovina. Esemplare di un’arte che si ricorda dell’impossibilità di un tutto (e dunque anche di una coppia stabile) e non può che godere del momento (forma propria della logica consumista), paradossale elegia di un codice etico perduto che si riflette nella fascinazione per ieratiche icone pop, The Grandmaster è il trionfo della maniera di Wong. Che, ancor più che in Ashes of Time, si stilizza quando è sottratta alla contemporaneità delle storie che racconta. E che da un cinema possibile, classico, epico, lunghissimo, estrae le proprie brevi e repentine impressioni fuori tempo: tanto che, in questo film d’arti marziali, anche durante i combattimenti, non è la mirabile coreografia della lotta a contare, e nemmeno la calibrata, elegante bellezza del gesto, ma ancora, sempre, il puro movimento del cinema, un attimo prima di diventare storia, memoria, fotografia.

Il “wu xia pan” secondo Wong, con la drammaturgia fondata su momenti, flashback, anticipazioni in parallelo, laconica continuity e segmenti da ricomporre in libero ordine, con gli amori vissuti a distanza, con la predilezione per pochi luoghi “pubblici” che evochino un comune sentire e facciano da base per personaggi tormentati (qui ritornano il bordello e la stazione dei treni), con il meltin’ pot di registri e generi (arti marziali, mélo, dramma storico, intimismo mistico, romanticismo), con personaggi che vivono, insieme alla Storia, continui cambiamenti (C’era una Volta in America: s’ode, non a caso, il “Tema di Deborah”). Un’opera progettata sin dal 1990, realizzata in venti mesi: la magnifica scrittura procede, poeticamente, per allegorie e proverbi; la resa iconografica, stilizzatissima, è fondata sul ralenti (mai più giustificato: il kung fu, secondo Wong, è raccolta in se stessi, comprensione del dettaglio); le coreografie d’azione di Woo-ping Yuen sono rese spettacolari attraverso la tecnica e non la violenza, specchiandosi nella filosofia della scuola di Yip Man (per Wong, l’arte marziale è “L’espressione di un codice d’onore che testimonia la grandezza della nostra cultura”). La biografia di Ip Man è, da un lato, allegoria della Cina divisa e, dall’altro, storia d’amore (per le persone, per l’arte marziale) che riflette sul concetto di onore particolaristico e di visione olistica. Wong rivoluziona il genere cavalcandolo per dire altro, senza rinunciare alle componenti che lo caratterizzano (i combattimenti) ma proponendole con un’inebriante riformulazione dei codici, attraverso tecniche di ripresa e montaggio (un anno in moviola): da antologia il combattimento iniziale sotto la pioggia, quello alla stazione (due mesi di riprese) e quello di Yi Xian Tian, personaggio che, rispetto alla versione uscita nel mercato asiatico (130’, differente da quella edita per il Festival di Berlino di 123’ e da quella dei Wesintein, di 108’), è stato sacrificato. Un film quasi tutto girato in studio per un controllo totale su luci, colori, ombre, superfici riflettenti e quadri debordanti dove, fra l’obiettivo e la persona ripresa, non c’è mai uno spazio libero: il kung fu è (anche) visione dei dettagli.
