Drammatico, Recensione, Storico

THE GOOD SHEPHERD

TRAMA

Edward Wilson è un patriota che conosce il significato e il valore della parola segretezza, e che ha fatto della discrezione la sua ragione di vita, dopo una tragica e privilegiata infanzia. In virtù della sua intelligenza, della sua reputazione immacolata e della sua incrollabile fiducia nei valori fondanti dell’America, Wilson diventa il candidato ideale a una carriera nel mondo dello spionaggio. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il giovane idealista viene assunto presso l’Ufficio Servizi Strategici (OSS), antesignano della CIA, una decisione che cambierà per sempre il corso della sua vita e modificherà la configurazione geopolitica del mondo fino ai giorni nostri. Essendo uno dei fondatori della CIA, e lavorando nel cuore dell’organizzazione dove la doppiezza è una dote fondamentale e dove nulla è quello che sembra, l’idealismo di Wilson verrà lentamente eroso dalla sua natura sempre più sospettosa che rispecchia un mondo che sta per entrare nella decennale paranoia della Guerra Fredda.

RECENSIONI

Venticinque anni di storia americana, dal 1939 ai primi anni Sessanta, per raccontare la genesi dell'agenzia di spionaggio più famosa del mondo. Alla sua seconda regia Robert De Niro mira molto in alto ma l'ambizioso progetto, nonostante l'indubbia professionalità dell'impianto, non convince. Nella complessa sceneggiatura di Eric Roth la carne al fuoco è infatti tantissima, ma la frammentarietà (gli andirivieni temporali si sprecano) non giova al fluire degli eventi (poco aiuta anche il fatto che mentre gli anni passano, e bambini diventano uomini, il protagonista e sua moglie sono sempre identici). Si cercano di conciliare le ragioni del singolo con quelle collettive attraverso un macchinoso percorso narrativo che vede da una parte l'uomo, obbligato a sacrificare gli affetti e a guardarsi costantemente alle spalle, e dall'altra la Storia, che chiede vittime e inesorabilmente avanza (dalla Seconda Guerra Mondiale alla Guerra Fredda). L'originalità sta nell'asciuttezza della regia, ma se De Niro evita i luoghi comuni del cinema d'azione (le conseguenze delle grandi decisioni sono lasciate all'intuito e alle immagini di repertorio) non risparmia quelli degli spy movie, dal dito mozzato alla valigetta con doppio fondo passando per la grata di un confessionale. Tanto rigore, però, pur nell'eleganza della confezione, non si ammanta di bellezza e anestetizza il risultato. Nelle quasi tre ore di proiezione, infatti, la noia regna sovrana e, all'ennesimo uomo in grigio che si avvicina con lineamenti lignei al protagonista sussurrando frasi allusive tipo "Le castagne sono sul fuoco", si invoca un energizzante conflitto a fuoco. Anche perché se i personaggi sembrano sempre sapere cosa fare e rispondere per cambiare il destino del mondo, nello spettatore un punto interrogativo si amplia progressivamente. Si dirà che non è quello il fulcro del film, alla ricerca di uno sguardo problematico e non troppo rassicurante sulle contraddizioni di chi parrebbe deciso a proteggere l'umanità (perlomeno quella occidentale), ma le tante micro storie disperdono l'interesse, poco aggiungono e troppo confondono. Non è però solo una questione di sceneggiatura. Anche la regia, infatti, manca di un piglio personale e si limita a imitare i Maestri (da Scorsese a Coppola, qui in veste di co-produttore) dilatando i tempi senza una vera ragione. Al torpore che ne deriva contribuisce anche, suo malgrado, l'onnipresente Matt Damon, obbligato dal ruolo a indossare costantemente una maschera di imperturbabile distacco che finisce per liquidare, con eccesso di sintesi, la psicologia del personaggio. Fuori parte, ma volenterosa, Angelina Jolie e con le facce fin troppo giuste gli altri (da William Hurt ad Alec Baldwin).

Bronx era, tutto sommato, passabile: una dichiarata scorsesata in minore, senza troppe pretese, girata con senso della misura e adeguatamente recitata. The Good Shepherd è, al contrario, assai indigesto: 167 minuti di Storia Americana, popolati di Attoroni, con chiare ambizioni di “affresco”, struttura da inestricabile spymovie anni ’70 e un’aura di presunta e presuntuosa classicità. Leggi “ecco un filmone come non se ne fanno più”. Ma leggi meglio “ecco una roba tronfia e bolsa come Alec Baldwin” – oppure, anche – “ecco la traduzione registica dell’ultimo De Niro attore, convinto che immobilità e qualità siano sinonimi e che gli sia ormai sufficiente un’alzata di sopracciglio o un’impercettibile smorfietta per consegnare ai posteri una performance immortale”. Perché The Good Shepherd è tutto un non detto/mostrato che si vorrebbe certificato di serietà/maturità ma che diventa solo moltiplicatore di minutaggio percepito, tanto più odioso quanto più si scorge una chiara voglia di film importante. La regia sarà dunque “asciutta” ma qualche momento da ricordare, nei film importanti, c’è, e allora intanto tariamo la fotografia: il presente è grigio-desaturato, il passato è ancora “a colori” (non voglio offendere nessuno dunque non esporrò l’ovvia chiave interpretativa). E inseriamo anche una sequenza “forte”, che nei film importanti c’è quasi sempre (l’interrogatorio-tortura-suicidio). E facciamo anche vedere che con lo specifico filmico ci sappiamo fare, inserendo una bella sequenza in montaggio alternato (la richiesta alla spia di suonare al violino, alternata al precedente smascheramento della spia stessa). La sceneggiatura farà bene, anch’essa, a (fingere di) lavorare per “sottrazione spionistica”, infarcendo qualunque – qualunque – dialogo di mistero, di reticenza, di suggerito, di non detto. Di “codici”. Esempio: Damon e Baldwin si scambiano qualche battuta polisemica, a denti stretti, con il tono di chi ha già visto tutto e gli occhi fissi sul tragico futuro dell’umanità (e oltre) e poi il dialogo finisce, Baldwin se ne va ma finge di dimenticare il cappello e Damon lo prende e dentro il cappello c’è un bigliettino e nel bigliettino c’è scritto un messaggio cifrato che… sì, insomma, ci siamo capiti. The Good Shepherd è tutto, insopportabilmente, così, con la sua “ultra-spymovie-tà” e la sua aura da film importante che parla di cose importantissime, di Storia Americana e di CIA, senza articolo davanti, perché “lei mette l’articolo davanti a Dio?” [cit]. Argh. Concedetemi una penultima parola su un paio di sequenze “simboliche” da brividi: Damon che finalmente legge la mai letta (perché?!?) lettera del padre suicida (per la cronaca: il vecchio, alla fin fine, aveva scritto due stronzate) poi le dà fuoco e la guarda bruciare con sguardo da insetto; l’imminente sposina viene defenestrata dall’aereo mentre tiene incomprensibilmente in mano il vestito da sposa (sic) il quale vestito rimarrà a fluttuare nell’aere sapientemente inquadrato dalla mdp di De Niro. Con gli attori, infine, il collega Robert deve essere stato chiaro: è un film importante e nei film importanti gli attori non strafanno, dunque tutti sotto le righe, controllati, implosi. Ora, se una richiesta così la fai a Michael Gambon può anche darsi che ne esca qualcosa di buono. Ma ad Angelina Jolie. No, dico, Angelina Jolie. E a Matt “G.I.Joe” Damon. Non fatemi aggiungere altro.