
TRAMA
La giovane operaia Karoline lotta per sopravvivere a Copenaghen all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Disoccupata, abbandonata e incinta, incontra Dagmar, una donna carismatica che gestisce un’agenzia di adozioni clandestina.
RECENSIONI
Nell’ibridazione tra dramma sociale in costume e thriller dai rigurgiti espressionisti, The girl with the needle inquadra una storia ispirata a fatti realmente accaduti negli schemi del film di genere citazionista. Funesta nello svolgimento, minuziosa nella messa in scena, è un'opera in cui la gradevolezza dell’immagine sembra guardare compiaciuta al più abietto degli spaccati. Ma l'indisponente estetizzarsi di ciò che vediamo, la messa in scena controllata e iper-costruita, anestetizzando il brutto, il deforme, il disumano, crea un cortocircuito tra sguardo e violenza che è proprio del contemporaneo. Un paradossale anti-sensazionalismo del male che disinnesca i picchi patemici dell’orrore, non con la distanza oggettiva dai soggetti (come accade in Haneke, Hausner, Diop e tanti altri), ma con l'iper-vicinanza, l'avvenenza e la sovrabbondanza linguistica: il bianco e nero quasi glam, l'eccedenza di citazioni gotiche, il pedinamento immersivo della vita della protagonista, i riferimenti visivi e narrativi illustri (Euripide, Tod Browning, Francis Bacon, Fritz Lang ma anche Paweł Pawlikowski). Perché è proprio lo sguardo de-sensibilizzato e disincantato rivolto al male, al deplorevole, all'osceno il leitmotiv del film, in cui si reiterano pulpiti, palchi, pupille e una moltitudine di scorci e reframe da cui i passanti possono spiare, in qualche modo spettacolarizzare la vicenda privata di Karoline, giovane sarta appena sfrattata, senza soldi, con un marito scomparso in guerra, un illusorio idillio amoroso e una gravidanza extra-matrimoniale alle porte. Un'esistenza di necessità, in cui anche il più timido tentativo di virtù, umanità e speranza è spento dall'indifferente crudeltà della Storia e dalle atrocità di un presente di miseria. Il pubblico, la calca di curiosi, si fa testimone vorace del privato, come sempre accade quando si parla di cronaca, di “fatti realmente accaduti”. Così recita il disclaimer posto alla fine del film, anziché all’inizio. Come a dire che la brutalità del reale viene dopo la messa in scena, il processo, il circo, dopo il racconto.
È una vicenda di straniata infelicità, complessa parabola di maternità negate, nell’abisso di una Copenaghen post Grande Guerra in cui tutti "cambiano volto", in cui lo sguardo verso l'altro non basta a comprenderlo, riconoscerlo davvero. Perché non è il trauma storico ad agitare il film, ma quello relazionale; non è la spietata contingenza di una società divisa in classi a trascinare Karoline in un vortice verso l'abisso morale, ma la trasfigurazione degli ambienti che vive, dei volti che incontra: l'impossibilità di un certo, di un conosciuto, di una genealogia, in un film in cui anche i passaggi più crudi e torbidi svaniscono nell'alienazione della protagonista, nello spaesamento dell'essere umano accanto al male. Nell’iper-nitidezza della fotografia che ben ricostruisce spazi, costumi, oggetti, toni ed epoca, a rimanere opaco è proprio l’individuo, assoggettato dalla rudezza dei luoghi, dalla ferocia degli oggetti, non colto nella motivazione dei gesti abitudinari e di quelli violenti. È un film di levigate superfici, smottate da feroci istintualità sotterranee, come erano anche The Here After (2015), vinterbergiano primo lungo di Magnus Von Horn e il secondo The Sweat (2020) riflessione sul corpo nella discesa agli inferi social. Come nei primi due film, il regista svedese naturalizzato polacco torna a raccontare una tragedia individuale di cui si è vittime e colpevoli al contempo, in cui ciò che crediamo nostro, familiare, identitario diventa estraneo, un mistero insoluto, che qui vive nell'ipnotica Dagmar di Trine Dyrholm: comprimaria poi protagonista, che come Karoline e tutti gli altri personaggi, sembra sottrarsi a sé stessa, allo sguardo e comprensione del pubblico, indugiando in penombra, nascondendosi, mascherandosi. Anche per questo, The Girl With The Needle è un film letteralmente impietoso, perché non offre emancipazione ai suoi attanti, non permette loro di abitare davvero le atrocità come le più liete conclusioni, di sentire davvero la Storia. A renderlo indigesto, fastidioso, è ciò che lo rende radicale: non tanto il suo magniloquente dissacrare guerra, corpi e morte in un'immagine suadente e cinefila, ma l'intransigenza con cui conferisce al mostruoso un volto abitudinario, digeribile, amico.
