
TRAMA
Nicholas Van Horton, ricco e cinico yuppie, riceve dal fratello uno strano regalo: un pass della CRS (Consumer Recration Services), un’impresa che organizza giochi su misura per il cliente. Rien ne va plus.
RECENSIONI
Il barocco congegno ludico che si costruisce intorno al protagonista, un gioco di ruolo dis-educativo, volto a far recuperare l'umanità a una persona che l'ha perduta, a metterla di fronte a se stessa, a farla specchiare e (non) riconoscere non sembra affatto bello e non dura neanche poco, ponendo lo spettatore stesso di fronte al perenne interrogativo: dov'è la finzione? Dove la realtà? Fincher, a sua volta, alle prese col Grande Gioco che include tutti gli altri (il Cinema), fa del suo film una sorta di lieve trattatello che, se da un lato può sembrare supponente - nel suo deliberato sfuggire alle convenzioni del narrare, aggirandole - e di fatua stravaganza, dall'altro dimostra di funzionare bene anche quando, dopo un inizio denso e riuscitissimo, la faccenda viene portata all'estenuazione (con tutto il corredo di finali a ripetizione che ci si può aspettare da un plot con tali premesse). Progetto indubbiamente e coscientemente meta (Fincher non solo è alle prese con i meccanismi del "mettere in scena" ma è pronto soprattutto a sottolinearli e ad ironizzarci su), The Game è un arzigogolo affascinante che, facendo a pezzi la logicità, non intende scendere a patti con la credibilità, solitamente oggetto della tacita convenzione con lo spettatore, rimanendo coscientemente e programmaticamente implausibile.
Rimane il dubbio che dietro la sceneggiatura, spacciata per originale, ci sia la rimasticatura di un romanzo (Il Mago di John Fowles, che doveva intitolarsi, è il caso di sottolinearlo, The Godgame - ne fu tratto un film di Guy Green, Gioco Perverso -) in cui, in circostanze e contesti diversi (ma assimilabili), si propongono identici meccanismi simulatori pervenendo alla stessa conclusione: la redenzione del protagonista (che si chiama, guarda un po', Nicholas come il personaggio interpretato da Michael Douglas).

David Fincher e la coppia di sceneggiatori John Brancato/Michael Ferris (The Net) prelevano il cinico ed insensibile Gekko di Wall Street e intonano "Il Canto di Natale" di Dickens, sostituendo gli spettri con un'Operazione Diabolica in un'avventura Fuori Orario e con gli umori macabri di Con la Morte non si Scherza di Arthur Penn. Il puzzle da ricostruire è un thriller, una sceneggiatura, una psiche infantile traumatizzata. I flashback di Nicholas/Michael Douglas testimoniano una rigidità indotta, non del tutto cosciente: la simulazione "dal vero" di cui è protagonista si trasforma in una terapia d'urto in vista d'una maturazione interiore; per essere efficace deve confondere il protagonista (e lo spettatore) fra finzione e realtà: la sua (e nostra) soggettiva è il motore primo di (quasi) tutta la Settima Arte. Mentre gioca con lo spettatore, Fincher rincorre la metacinematografia, l'apologo morale e la polemica socioeconomica: Nicholas è vittima di un gioco spietato speculare a quello in Borsa, parimenti virtuale; il controllo totale che pretende di avere sulla vita propria e altrui edifica una Gabbia d'oro; si risveglia nella miseria e rimette in discussione se stesso; impugna una pistola (nascosta nel romanzo "To kill a mockingbird", Il Buio oltre la Siepe dell'innocente incastrato) e le sue (potenziali) allucinazioni gli aprono gli occhi su di un mondo popolato da ruoli, attori e burattinai. Il pessimismo dilaga ma il sipario pretende il lieto fine: pagando, s'intende. L'ultima mezz'ora, con i suoi colpi di scena e paradossi, sublime nella beffa troppista, ripaga d'una parte centrale in cui il gioco si stava facendo noioso e molesto, privo di salutari incubi e ferocia.
