Biografico, Sportivo

THE FIGHTER

Titolo OriginaleThe Fighter
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Durata115'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Due pugili, due fratelli: Dickie e Micky Ward. Il primo incapace di conciliare un passato da leggenda per aver messo al tappeto Sugar Ray Leonard con un presente da tossico, il secondo in attesa di poter riprendere in mano la propria carriera di pugile e la propria vita, soffocata da un’ingombrante famiglia.

RECENSIONI

Se la vita corrispondesse esattamente, nei minimi particolari alla visione del tutto personale, soggettiva e univoca che ognuno ha di sé, allora Dickie Ward rimarrebbe per sempre un grande campione, una leggenda indiscussa. Il problema di fondo è che qualcosa sembra ricordare che non è più tempo di eroi, solitari, predominanti e temprati nel fisico e nella mente da una solitudine tanto mitizzata quanto tragica. Interna o esterna che sia, il soggetto è vittima di una dicotomia insopprimibile che lo induce ad avere un atteggiamento nei confronti della realtà del tutto distorto o per meglio dire autistico. David O.Russell e con lui Darren Aronofsky, qui in veste di produttore, sembrano esserne lucidamente consapevoli. Tratto dalla vera storia di Micky e Dickie Ward, The Fighter rappresenta lo slittamento definitivo di un certo canone estetico e drammatico che caratterizza i film del genere: nessun personaggio sembra sopravvivere in completa autonomia; pare infatti fin troppo evidente che qualsiasi soggetto agente nutra un disperato bisogno di una stampella che lo sostenga e lo legittimi. Tutto ruota attorno ad una multiforme dipendenza diversamente mutuata in base alle circostanze: famiglia e crack, una tossicodipendenza per un cordone ombelicale mai reciso. La soffocante gerarchizzazione dei rapporti tra i personaggi è tale in quanto frutto di un'atavica sottomissione ad un evento passato, la messa al tappeto di Sugar Ray Leonard da parte di Dickie, che sembra cristallizzare la famiglia in un presente-passato immobile ed eterno, in cui ogni possibilità di cambiamento è del tutto inconcepibile.

In questa struttura inclusiva e parassitaria viene spontaneo chiedersi a chi si riferisca veramente il titolo del film, se al giovane Micky (Mark Wahlberg) che tenta timidamente di trovare una propria vittoria personale nel mondo del pugilato e una propria identità, o al fratello maggiore (Christian Bale) ingabbiato in un claustrofobico passato da vincitore di cui ben poco sopravvive nella realtà. La chiave di volta che sorregge tutto il film è proprio questa: la crisi di un racconto monodirezionale, ad una sola voce, ad un'unica dimensione, in cui realtà e rappresentazione tendono ad essere difficilmente separabili. La realtà per rivelarsi tale deve necessariamente essere negoziata attraverso la giusta considerazione di ciò che fa parte del passato e di ciò che invece riguarda strettamente il presente. Del resto i concetti di realtà e di finzione in The Fighter risultano essenziali per accedere ad una dimensione reale di consapevolezza del proprio io: non è la dichiarazione di intenti da parte del regista del documentario sulla vita di Dickie Ward a smuovere le coscienze dei personaggi e non sono nemmeno i fatti reali a creare scompiglio. Sono le immagini del documentario dell'HBO che passano in televisione a sancire la fine di una realtà illusoria, edulcorata e consolatoria e a risvegliare chiunque fosse ancora prigioniero di un ricordo sbiadito. Come se la realtà per affermare se stessa dimostrasse un profondo e insopprimibile bisogno della mediazione cinematografica, di un filtro, di una lente d'ingrandimento che metta in luce la verità e che dia fuoco una volta per tutte al velo di Maya che la nasconde. La fitta ragnatela metacinematografica intessuta di continui rimbalzi tra punti di vista e tra presente e passato corrode anche l'ultima pallida possibilità di un racconto inteso come unicum, monolitico e inattaccabile, dichiarando che qualcosa probabilmente è davvero cambiato per tutti.

Fra talenti ci si riconosce: è stato Christian Bale a caldeggiare la regia di David O. Russell per questo progetto fortemente voluto da Mark Wahlberg che, evidentemente, ama i racconti alla Four Brothers. Russell, reduce da risultati poco lusinghieri al botteghino, imprime la sua iconoclastia a un B-movie indipendente e su commissione (doveva dirigerlo Darren Aronofsky, produttore esecutivo) e finisce per fare la differenza in un testo abbastanza risaputo, fra tragedia familiare, riscatto sportivo e “storia vera” dove i diseredati hanno la meglio. Il regista gioca con il linguaggio, parte con l’idea di una troupe della HBO che sta girando un documentario e rincorre un registro rischioso ed originale, tipico del suo cinema, la caricatura grottesca sul filo del realismo: il mélo da strada, fortemente ancorato ad un quartiere con facce e location “vere”, soprattutto quando restituisce questa sorta di Clan dei Barker con madre autoritaria e sorelle da Cenerentola, prende sottilmente le vesti di una commedia, pur mantenendo il giusto equilibrio per non sembrarlo. La differenza la fa anche il più grande talento maschile della recitazione su piazza, Christian Bale: oltre a (ancora) dimagrire oltremodo per la parte, sorprende (ancora) nel trasformismo (replica alla perfezione chi emula, che compare sui titoli di coda) per un tipo scoppiato, sempre pronto a fare il buffone per essere al centro dell’attenzione, a mettersi nei guai ed a proteggere il fratello minore. Del binomio vita privata-ring da Toro Scatenato, è prediletta la prima sfera con il leit-motiv della famiglia che soffoca e Russell cede alle convenzioni solo nel match finale (le dovute dinamiche per emozionare) che restituisce originalmente, però, con tecniche televisive (s’è avvalso proprio di una troupe della HBO). Ottimo soundtrack anni settanta.