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TRAMA
Un gruppo di amici in una casa di riposo a Gerusalemme costruisce una macchina per l’eutanasia per aiutare un amico malato terminale. Quando comincia a spargersi la voce sull’esistenza di questa macchina, sempre più persone iniziano a cercare il loro aiuto e a quel punto il gruppo di amici si trova di fronte a un dilemma.
RECENSIONI
Tal Granit e Sharon Maymon dimostrano la vitalità di un cinema, quello israeliano, prevalentemente visibile a livello internazionale solo nei soggetti inerenti il conflitto israelo-palestinese, e invece piuttosto attivo. Ne sono un esempio anche Rabies, riuscito esempio di cinema horror, o le serie televisive Be Tipul, ispiratrice poi dell’adattamento americano In Treatment, e Hatufim, da cui la 20th Century Fox Television ha dato origine al successo di Homeland - Caccia alla spia. The Farewell Party conferma il fermento in atto attraverso un’opera che riesce a conciliare con sensibilità un tema non nuovo ma sempre difficile (l’eutanasia), spaziando con equilibrio dalla risata al dramma. C’è un’atmosfera di gioiosa vitalità nel gruppo di amici ultrasettantenni che si trova a fronteggiare la malattia e il diritto di non soffrire per accanimento terapeutico, sempre più praticato e molte volte vissuto più come lenta e inesorabile tortura che come sollievo.
Ciò che nasce casualmente come il tentativo di porre fine allo strazio di un amico, condannato a un mare incurabile e in uno stato costante di agonia, evolve presto in una sorta di missione: ridurre il più possibile la sofferenza altrui garantendo alle persone ammalate la dignità personale e il diritto di scegliere il proprio destino. Il gruppo di protagonisti è ben delineato, gode di qualche coloritura che non stona (la coppia omosessuale piuttosto agée ma ancora lontana dal coming out, le multe del vigile rigoroso evitate attraverso le lacrime) e di interpreti solidi nel tratteggiare la vasta gamma di emozioni dei personaggi a cui danno vita. La seconda parte, dopo un inizio spumeggiante e caratterizzazioni piuttosto brillanti, rischia di girare un po’ a vuoto perché forza la progressione senza aggiungere molto all’idea di partenza. Contribuisce però a sensibilizzare su un tema scomodo offrendo uno sguardo libero da ideologie e pregiudizi.