Commedia, Drammatico, Recensione

THE FAREWELL

Titolo OriginaleThe Farewell
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2019
Durata100'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Billi, nata in Cina e cresciuta negli Stati Uniti, scopre che alla sua amata nonna restano solo poche settimane di vita, ma tutti in famiglia hanno deciso di tenerle nascosta la verità. Per proteggere la sua serenità, si riuniscono con il festoso espediente di un matrimonio affrettato. Avventurandosi in un campo minato di aspettative e convenevoli, Billi scopre che in realtà ci sono molte cose da festeggiare: l’occasione di riscoprire il Paese che ha lasciato da bambina, il meraviglioso spirito di sua nonna e i legami che continuano ad unire anche quando c’è molto di non detto.

RECENSIONI

The Farewell – Una bugia buona, opera seconda della sino-americana Lulu Wang, ha il sapore del candido déjà-vu per chiunque ricordi Ang Lee, taiwanese oggi americano d’adozione, e la sua opera seconda, Il banchetto di nozze (1993). Le somiglianze fra i due film sono dovute tanto all’utilizzo di una paletta espressiva condivisa (i toni garbati della commedia amara e malinconica) quanto ad una serie di elementi e un percorso narrativo comparabile. Entrambi i film studiano uno scontro intra-culturale all’interno di una famiglia cinese ramificata, fra chi è rimasto in madrepatria e chi è emigrato negli Stati Uniti. In ambo i casi la celebrazione di un matrimonio è il pretesto che riunisce i due nuclei e l’arena in cui si combatte per celare un segreto con una bugia (l’omosessualità del figlio in Ang Lee, la malattia della nonna nella Wang). Tutti e due si interrogano sul concetto di identità culturale cinese, quali fattori la determinano e che valori la compongono, fra il richiamo ad un bagaglio tradizionale impossibile da ignorare (identificato nella madrepatria) e le trasformazioni traumatiche di una modernità inevitabile (esemplificata nella figura del “cinese d’oltremare” emigrato negli Stati Uniti). È però interessante notare come nella loro similarità di situazioni, i due film si muovano in direzioni speculari, invertendo la rotta del viaggio (dalla Cina/Taiwan agli USA nel primo, dagli USA alla Cina nel secondo). Questo movimento inverso innesca una diversa percezione, un mutamento fondamentale della materia del sentimento che si esprime nei confronti della tanto contesa identità cinese, fardello affannosamente negoziato durante tutto il percorso. Ne Il banchetto di nozze (ma il discorso si potrebbe allargare a gran parte del filone narrativo sull’esperienza diasporica sino-americana, da Il circolo della fortuna e della felicità di Wayne Wang in poi) traspare un senso di nostalgia per una cultura tradizionale che ci si è lasciati alle spalle, mentre la necessità della modernità (emigrare) appare comunque necessaria o inevitabile. In The Farewell invece, attraverso gli occhi della protagonista Billi, si avverte in maniera distinta un senso drammatico della perdita, lo smarrimento di una fantomatica cultura originaria vissuto come un abisso, un’impossibilità di riconciliazione, un Eden da cui si è stati forzatamente strappati e mai più riconsegnati. La festosa celebrazione del matrimonio del cugino (che si sposa con una giapponese, popolo storicamente nemico giurato di quello cinese – altro ironico segno dei tempi che avanzano?) non è quindi solo un addio segreto all’amata nonna, ma un saluto malinconicamente straziato ad una cultura che non coincide più con la propria identità.

Seppur venata di tragedia nei suoi tratti più profondi, la crisi identitaria di Billi viene presentata nei fatti nelle vesti gentili della commedia. È con tocco leggero che Lulu Wang costruisce una narrativa tutta costruita su giustapposizioni e contrasti – il clash di culture e generazioni, la bilancia delle gioie e dei dolori, la risata e il pathos del dramma – e il carattere semi-autobiografico del racconto le permette un certo grado di realismo e sottigliezza nella costruzione dei personaggi e dei dettagli. L’identità duale di Billi è perfettamente rappresentata in una delle scene iniziali del film: camminando lungo le strade di New York, la ragazza parla al telefono con la nonna in un cinese tanto rispettoso quanto affettato, con le cadenze talvolta incerte del parlante non più nativo; al termine della chiamata, Billi cambia istantaneamente persona e si rivolge ad un uomo in strada con la sicurezza tagliente di un inglese dalla forte cadenza americana. Billi è giovane donna la cui crisi identitaria è innanzitutto il prodotto di una crisi contestuale nel suo rapporto, socio-economico prima che culturale, con la nuova madrepatria – gli Stati Uniti. Questa premessa appare fondamentale per capire i personaggi di contorno, i quali prendono forma attraverso gli occhi della ragazza. Il padre e la madre sono personaggi tanto tristi quanto reali: la pesantezza della loro visione troppo pratica del mondo, l’amarezza del vivere che trasmettono sono il ritratto disilluso di una generazione di immigrati asiatici di prima generazione che hanno combattuto, sofferto e faticato per sopravvivere in America. In un momento di crisi personale, questo è ciò che Billi non può tollerare. È in questa logica che si comprende anche il personaggio della nonna, la sua costruzione che – al contrario di quella dei genitori – suona irreale, quasi macchiettistica, ma solo fintamente ingenua. Sempre sorridente, vitale, saggia e allegra: è l’idealizzazione di una cultura non solo perduta, ma forse mai esistita. Billi recrimina il fatto di essere stata strappata alla Cina quando era ancora una bambina e quanto sia stato difficile anche per lei adattarsi ad una nuova vita oltreoceano. Quella che Billi si illude di provare è una nostalgia della Cina in quanto luogo, punto fisico verso cui poter scappare, emigrare al contrario, perché migliore, più semplice, piena di affetti; quella che Billi in realtà prova è invece una nostalgia per la Cina in quanto tempo della vita, collegata ai ricordi della sua infanzia, e che in quanto tempo non è più ripetibile. La crisi di Billi è dunque quella della sfida del diventare adulti nell’ostilità del presente, il pianto finale in ritorno verso New York è anche la realizzazione di questo.

The Farewell è un’interessante aggiunta al corpus dei lavori (non solo cinematografici) sull’esperienza della diaspora cinese, utile per un aggiornamento sulle dinamiche soprattutto emotive che accompagnano le seconde generazioni. A Lulu Wang va il merito dell’impresa e delle implicazioni complesse che la sottendono, anche se la leggerezza del tocco cinematografico sembra sempre celare una certa cautela verso il materiale trattato, quasi una guaina protettiva che non lascia veramente esplodere le micce tematiche e emotive della storia. Ne risente forse anche la performance di Awkwafina (Billi), corretta ma mai sinceramente deflagrante né come maschera comica né sul fronte dell’intensità drammatica. La pensa diversamente la Hollywood Foreign Press Association che le ha comunque conferito il Golden Globe come miglior attrice.