TRAMA
New Jersey, 10 gennaio 1952: dopo aver assistito ad una proiezione de Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, il giovane Sammy Fabelman si innamora delle immagini in movimento e inizia a filmare le sue storie fantastiche. Cresciuto, scoprirà uno sconvolgente segreto di famiglia e imparerà che il potere dei film può anche aiutarlo a vedere la verità.
RECENSIONI
Si apre fuori da un cinema The Fabelmans, poco prima della proiezione che cambierà per sempre la vita del piccolo Sam, e si chiude nel luogo dove il mestiere e la passione consentono di fabbricare la magia. Il più grande spettacolo del mondo, un treno che da De Mille riporta a La Ciotat, un giovane spettatore che arde dal desiderio di possedere, controllare e replicare all'infinito quella meraviglia, composta, come ricordano rispettivamente il padre e la madre nella significativa sequenza iniziale, di tecnica e sogno, di ragione e sentimento. E ancora, gli occhi e lo stupore di Sam Fabelman, il suo staccare la schiena dalla poltrona per avvicinarsi fisicamente allo schermo, la paura che diventa fascinazione, il buio della sala come esperienza trascendentale, in grado di illuminare la vi(t)a: è il 1952, ma negli occhi di un bambino di sei anni (e in quelli di uno di settantasei), quel rito collettivo possiede ancora tutto il senso primigenio e ancestrale mitizzato dal cinema delle origini.
E tuttavia la grandezza di The Fabelmans, che ha il titolo di una saga familiare ma la sostanza e l'instabilità emotiva del coming of age, sta proprio nel non fermarsi a quel sentimento, nel non barricarsi dietro la stucchevole messa in scena di un'emozione. Prima di essere una statuaria "lettera d'amore per il cinema", l'opera sinceramente autobiografica di Steven Spielberg è infatti la storia di una relazione affettiva con le immagini e in quanto tale il racconto (dinamico) di una continua rivelazione. La sincera ingenuità dell'innamoramento infantile, la maturazione del desiderio e la padronanza sempre più creativa del mezzo; la scoperta di poteri insondabili, capaci di modificare la percezione stessa della realtà, di scrutare l'invisibile (Blow-Up), di portare alla luce ciò che si voleva tenere nascosto a se stessi e agli altri; e poi il rifiuto, l'allontanamento, il riavvicinamento, l'ostinato tentativo di fare di quella passione un lavoro. La crescita di Sam corrisponde allora alla sempre maggiore consapevolezza nei confronti del dispositivo, in un percorso di maturazione individuale che si rispecchia nella storia stessa delle immagini in movimento: dallo stupore infantile (il treno) alla maturità dell'industria (gli studios), passando naturalmente per una dolorosa ma necessaria fase di perdita dell'innocenza (il senso sfugge al controllo del creatore, le immagini hanno un peso importante sulla realtà: possono incrinare il già precario equilibrio di una famiglia o trasformare uno stronzo antisemita in un eroe). E ancora, se durante la bellissima e disperata sequenza del ballo notturno della madre Sam scopre per la prima volta il potenziale drammatico della realtà, il malcelato desiderio di filmare la lite prima della separazione dei genitori tradisce invece il diverso grado di coinvolgimento emotivo rispetto alle sorelle, il suo aver ormai fatto quel passo indietro che da attore lo trasforma in spettatore, da soggetto protagonista ad osservatore privilegiato: l'ossessione di uno sguardo che ha definitivamente trasformato perfino la famiglia e i suoi drammi in materiale narrativo.
Steven Spielberg dunque, dentro e fuori dal racconto, finalmente alle prese con un amarcord che è allo stesso tempo un generosissimo atto d'amore e un'umanizzazione di quella figura mitica e monumentale che ormai porta il suo nome. Perfino qui, perfino nel mettere in scena il suo personalissimo e autobiografico coming of (im)age(s), Spielberg non perde un briciolo di quell'afflato universale che caratterizza tutte le sue opere. E in una filmografia che guarda quasi sempre al grande passato della Storia, al futuro della fantascienza o al fuori-dal-tempo del fantasy e del racconto d'avventura (i film ancorati alla realtà e ambientati nel presente si contano sulle dita di una mano), un'opera come The Fabelmans è ancora una volta un unicum, una prima volta come lo era il musical per lo straordinario adattamento di West Side Story. Nonostante la narrazione abbracci apertamente vent'anni importanti di Storia americana, questa resta infatti un fuori campo totalmente privo di tensione: la scena è tutta per un ragazzo il cui cognome sembra predestinarlo ad imprese favolose, e per una famiglia amorevole ma problematica, la cui instabilità viene sottolineata dai continui traslochi che dal New Jersey la portano fino a Los Angeles; sempre più a ovest, in cerca di fortuna (gli spostamenti sono sempre legati ad un miglioramento della condizione lavorativa del padre), alla conquista di quel West(ern) che per l'appunto, è l’origine e la fine di tutte le cose (viene in mente il bellissimo finale di War Horse).
Ancora lì, nel cinema, la fine di un film è soltanto l'inizio di un'altra storia, che da quel momento in poi è nota a tutti; un'altra vita, riconoscente del peso fondamentale e nostalgico del cinema classico (John Ford, «the greatest film director who ever lived»), ma allo stesso tempo capace di aprirsi senza paura verso la modernità, il futuro, l'ignoto (David Lynch, che interpreta «the greatest film director who ever lived»). Lo sguardo si apre, l'omaggio è al cinema tutto - ancora una volta, tra genio e mestiere - e Spielberg si firma, rivelandosi e sostituendosi a Sam, con un movimento di macchina ad aggiustare l'orizzonte e a dare spazio al cielo. Perché il cosa si guarda sarà sempre meno importante del come, e il come, nell'industria, ha anche le sue regole e i suoi trucchi. E quel che si vede in The Fabelmans, il come lo si vede - la sua luce, le sue ellissi, le due dissolvenze al nero che comprimono e commentano la fase del rifiuto ad utilizzare la macchina da presa, gli sguardi di Paul Dano (un gigante) e la malinconia di Michelle Williams catturati ora da Spielberg ora dagli home movies di Sam - è, molto semplicemente, grande, grandissimo cinema.