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TRAMA
Oded torna a casa in un momento della giornata in cui non è mai tornato. Per un istante gli sembra di essere entrato nell’abitazione di uno sconosciuto, vuota e silenziosa in quella desolata ora pomeridiana.
RECENSIONI
Ci sono film che ci svelano qualcosa, gettando luce su aspetti dell'esistenza fino a quel momento in ombra e che, una volta fatti oggetto di analisi, una volta entrati nel meccanismo narrativo di un film, si scoprono dentro di sé, prima ancora che sullo schermo. E' il caso del film di Kolirin, opera seconda del regista di La banda.
Oded torna nella propria casa ad un orario insolito, interrompendo il pomeriggio lavorativo, e fa la scoperta di un mondo che, se da un lato è indiscutibilmente quello nel quale normalmente vive, dall'altro si mostra in maniera completamente diversa. L'inclinazione dei raggi solari si traduce in ombre e luci inedite, il silenzio del pomeriggio fa emergere suoni generalmente inudibili, persino la presenza della moglie dormiente funge da ulteriore tassello disorientante di un deviato mosaico che intacca l'immagine consolidata di quel luogo. Il nostro si accorge di quanto il suo normale contesto esistenziale sia molto lontano dall'essere certo e indiscutibile, di come, anzi, sia relativo, fragile, passibile di scomparsa improvvisa, di inconcepita messa in discussione. Kolirin dunque inscena la necessità abissale di unaltra prospettiva, il bisogno di vedere e vivere fuori dagli schemi abituali.
A porsi sono sempre le medesime questioni: quante sono le facce del mondo in cui viviamo? Come possiamo vederle se la consuetudine non ci consente più di valutare le cose, avendo noi perso la verginità di sguardo necessaria per analizzarle? A questo interrogativo si aggiunge la volontà, da parte del protagonista, di comprendere quali siano i confini entro i quali, in maniera del tutto automatica e inconsapevole, si muove la sua vita. Di sondarli e di superarli coscientemente.
Il corridoio del pianerottolo di casa, nel momento in cui si decide di guardarlo davvero e di non oltrepassarlo e basta, può apparirci come un ambiente totalmente sconosciuto, che si può decidere di far nostro in un modo diverso da quello consueto (il passaggio). E' in quell'ottica che va vista la scena in cui il protagonista si cala le braghe: sta saggiando i confini del suo quotidiano, ne ha percepito i limiti convenzionali che la sua abitudine gli ha tracciato all'interno e con quel gesto li sta volontariamente oltrepassando; allo stesso modo decide di sdraiarsi nel garage, di dormire nel rifugio antiaereo della casa (siamo in Israele, non dimentichiamolo). Il sistema routinario dal quale Oded dipende gli fa conoscere solo una versione del mondo, che diventa standardizzata; è quell'immagine ormai cristallizzata che viene allora sovvertita.
Luomo ripristina la verginità del proprio sguardo, sottraendosi alla griglia che ingabbia la sua vita.
E quello che succede quando si decide di arrivare a casa cambiando la solita strada: si scopre che vive un mondo completamente diverso, nuovo, inimmaginabile a soli due metri da te, un mondo prossimo eppure completamente sconosciuto, al quale si decide improvvisamente di accedere. Allo stesso modo il protagonista scardina i codici taciti che governano la sua vita, decide di fare un viaggio all'interno della sua quotidianità, ma seguendo un itinerario mai sperimentato, che giunga alla medesima destinazione. In questo viaggio studia gli anfratti e i sottoscala del suo condominio, squarcia il velo sul dietro le quinte del palcoscenico evidente della sua esistenza, corrompe la logica di alcuni momenti della sua giornata (le attese dell'ascensore, la posizione del posacenere). Da scienzato quale è (è dottorando in fisica) decide di fare della sua quotidianità un oggetto di studio, studio che gli regala scoperte continue.
Lincontro con un'altra persona che sta facendo lo stesso percorso porta all'inevitabile passo in avanti: lo scambio del titolo; si può pirandellianamente guardare la propria vita e quella dei propri intimi con occhi vergini, quelli di un'altra persona che ci racconta ciò che ha visto e provato (un po' come quando riacquistiamo l'entusiasmo del primo ascolto quando facciamo ascoltare una canzone che ci piace a una persona che non l'ha mai sentita). I due sono come astronauti in perlustrazione su un pianeta sconosciuto, in cui tutte le esperienze, persino il malore di un genitore, divengono fenomeno da osservare con distacco e oggettività.
Nel bozzetto lumorismo ebraico è quasi evaporato, ne rimangono tracce sottili e dislocanti, che pervadono strisce fumettistiche sostanzialmente anti-narrative, quadri/situazioni che scorrono luno dopo laltro e in cui Kolirin ci parla di un tema antico (lalienazione causata, in primis, da una vita plasmata intorno al lavoro) sostanziandolo con squarci di verità illuminante, senza trasformarlo in argomento da affrontare frontalmente ponendo accenti che possano indirizzare linterpretazione, ma mettendo in forma il senso di disorientamento, lavorando sulla reiterazione dei luoghi, sulla composizione dei volumi nel quadro, sugli slittamenti che inducono nello spettatore la sensazione del cambiamento. Una lezione da cinema moderno - da Antonioni in poi (in giù) - che qui è ridotta a un minimalismo lunare, a dramma azzerato e ironia diffusa, come fosse semplicemente un calambour, un gioco in cui le priorità vengono ribaltate. Dove la narrazione galleggia sotto la minuzia della descrizione, dove lumanità non usa gli oggetti, ma gli oggetti dicono dello stato danimo dellumanità, dove ciò che conta non è altro che luomo nel suo rapporto con lo spazio. Sono ossessioni, queste dell'israeliano The exchange, che pervadono il cinema palestinese, a cominciare dal maestro Elia Suleiman. Ed è impossibile non cogliere, in questa richiesta di scambio, in questa urgenza di accogliere lo sguardo dellaltro, un sottotesto politico: perché The exchange è un invito allo spaesamento, a quella condizione che, letteralmente, vive il popolo palestinese, sottratto ai propri luoghi, costretto al perdersi estraneo nella propria terra.
Così il film più sottovalutato di Venezia 2011, tacciato di ermetismo o superficialità, si mostra ai nostri occhi come un'opera di miracolosa leggerezza e stratificata portata simbolica, bande dessinée in live action attraversata da un verissimo e dolente iperrealismo, forma che incanta per la capacità di mettere in scena un sentimento universale difficile da cristallizzare in discorso (e in immagine), preghiera laica per uno sguardo che sappia essere primo e ultimo, ogni volta, oggetto propedeutico che riesce nell'impresa di toccare i nervi scoperti dello spettatore.
Perché The exchange, prima di tutto, è un film che ci scopre e ci mostra nudi, assurdi come siamo.
Eran Kolirin: Hahithalfut non è un film su molte cose quanto sulle cose stesse. I tavoli, le porte, le stanze, le sedie: tutti gli strani oggetti di cui si compone la nostra vita. Strani non nel senso che stanno in agguato nellombra, o di una stranezza crepuscolare: strani di quella stranezza che è propria degli oggetti situati in piena luce. Il senso di mistero proprio della realtà delle cose, della realtà della vita.
Luca Pacilio & Giulio Sangiorgio
