Commedia, Drammatico

THE DISASTER ARTIST

Titolo OriginaleThe Disaster Artist
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata104'
Tratto dall'omonimo romanzo di Greg Sestero e Tom Bissell
Fotografia

TRAMA

Storia della lavorazione di The Room di Tommy Wiseau: forse il film più brutto mai realizzato.

RECENSIONI


TRAGEDIA DELLA MEDIOCRITÀ

Chi è Tommy Wiseau? Dov’è nato, quanti anni ha? Perché vuole girare un film a Hollywood? The Disaster Artist sonda il suo enigma: eccessivo e narcisista, inetto e ostinato, Tommy non è solo senza qualità, è il peggiore. Convinto che basti urlare per eseguire un’interpretazione, vuole fare parte dell’industria hollywoodiana, è ossessionato dal sistema che lo esclude: “It’s a great american game”, dice del football, e vale anche per il cinema: partecipa a un gioco a cui non sa giocare. Ama la disco che non sa ballare. Gira un film che non sa filmare. Paragona Greg, attore mediocre, a James Dean, di una scena dice: “Deve sembrare Titanic”. È incolto, mitomane, imbevuto nel banale. Nella sua figura c’è il rovesciamento della retorica virtuosa del cinema classico americano: “Never give up”, non arrenderti e ci riuscirai, sostiene Tommy, ma qui non c’è alcun talento osteggiato dal sistema, non c’è outsider che si fa spazio. Tommy non ha abilità: la presunzione del sogno americano viene applicata alla mediocrità e incappa nell’equivoco che tutti possano farcela, anche gli incapaci. Ma enunciare (declamare, ululare) il sogno non serve a realizzarlo, come attesta il produttore di Judd Apatow. È così che Wiseau fa il suo film da solo, scrive un dramma alla Tennessee Williams: “Farei di tutto per la mia ragazza”, “Il cioccolato è il simbolo dell’amore”, queste le battute: luoghi comuni, scherzo homemade, stereotipi degli stereotipi. La lavorazione di The Room è una caricatura delle regole di Hollywood: norme solo supposte, come mostrare un nudo, che si affermano ma non si conoscono, innescando una spirale di decibel alti, buona la prima e perfino una ripresa ripetuta ad libitum che può compiersi solo quando l’attore-regista impugna una bottiglietta d’acqua, “per liberare la mente e mostrare le emozioni”. Tommy è chiuso nel suo guscio: una scena non fa ridere e ride lo stesso, la troupe lo contesta e va avanti. È un uomo-gabbia: guarda solo a se stesso, è incapace di critica e confronto con l’esterno, di interrogarsi, sa fare solo la propria autoscrittura, si definisce senza conferme, dice di essere un regista, dice di essere bravo. “Non ha mai visto un film”, nota il Sandy di Seth Rogen, anche se lui dice il contrario. Afferma ma non ascolta. Davanti all’evidenza del fatto diventa vittimista e assolutorio (“Non piaccio a nessuno, tutti mi tradiscono”), ma di un’assoluzione ancora più ambigua perché questa vorrebbe un’analisi di sé che conduce all’indulgenza: e qui non c’è mai indagine, ricerca, è la tragedia di un uomo che non si mette in discussione. Fissato sulla malriposta ambizione: parodia di un folle herzoghiano, senza un’impresa da compiere, barzelletta di un personaggio coeniano, perché non interviene il caso ma è tutta colpa sua. Tommy forse è pazzo. Ma questo non lo giustifica né salva dal disastro.


COMMEDIA DELLA MEDIOCRITÀ

E perché gli altri girano con lui? La risposta, stavolta, è semplice: “Anche il giorno peggiore su un set cinematografico è meglio del giorno migliore da qualsiasi altra parte”, ci spiega Jacki Weaver, a nome dei rifiutati e degli off Hollywood, colmando anche il dubbio sulla parabola di Greg, l’ingenuo, l’attore wannabe pronto a seguire il guru sbagliato. Ecco allora che si insinua un paragone adeguato per Tommy Wiseau: è la figura di Florence Foster Jenkins, la soprano stonata, già cinematografata da Giannoli in Marguerite e soprattutto da Frears in Florence. La donna ha un pubblico pagato che diventa corte, l’uomo ha una troupe pagata che preferisce un brutto film a nessuno: entrambi pagano, loro o per interposta persona, sono capitalisti del risultato artistico, provano a comprarsi il merito. Ma allo stesso modo vengono subito riconosciuti come fallimentari dal mondo intorno, e di questo si rendono inconsapevoli, lo dimostra la funzione del making of sul set di The Room, il documentario imposto sulle riprese, colmo dell’ambizione che si rivolta contro Tommy quando svela cosa pensano gli altri di lui. Agnizione che altrove sarebbe decisiva, ma che lui non ascolta e prosegue. Perché davanti al fallimento conclamato, l’unica arma a sua disposizione è portarlo fino in fondo: “I don’t want career, I want my own planet”, era la premessa, e come novello Ed Wood quel pianeta se lo costruisce accuratamente, passo dopo passo, fuori dalla dittatura del gusto. Nello spazio tra hero e ogre è la sua sostanza; gli suggeriscono di fare il cattivo ma vuole essere l’eroe, per poi slittare nolente dall’uno all’altro, perché di fatto non c’è differenza: anche l’orco è una ruota della macchina dello spettacolo. Tommy si porta dietro un equivoco ridicolo, la sopravvalutazione di sé, che fa molto ridere: è tanto struggente quanto esilarante.


TRIONFO DELLA MEDIOCRITÀ

«Io sono così: posso fare Strafumati come William Faulkner», aveva detto James Franco a Venezia 2016 nella presentazione di In Dubious Battle, fondendo volutamente il percorso attoriale con quello registico e dando una conferma: la sua è anche una perenne riflessione sulla pratica di fare cinema mettendo in campo la sua icona, manovrandola strategicamente secondo necessità, ora in una riduzione scettica di sé (basti pensare a Facciamola finita) ora in versione “seria” per portare il pubblico in sala (i braccianti di Steinbeck). Franco gira The Disaster Artist dopo il tentativo di accreditarsi come autore, di offrirsi come coraggioso adattatore letterario, passando per McCarthy (Child of God), Faulkner (As I Lay Dying e The Sound and the Fury) e appunto Steinbeck: ma non certo per questo è conosciuto James Franco, l’ambizione è finora incompiuta. Ecco allora che la sua figura si lega implicitamente a quella di Tommy Wiseau, che The Disaster Artist si offre come un vero e proprio tunnel degli specchi: Franco gira un film hollywoodiano su un regista antihollywoodiano, da lui interpretato, che gira il film più brutto mai fatto. È così che il Wiseau/Franco non è solo omaggio allo straordinario perdente ma dice anche qualcosa di sé: Franco in Wiseau si riflette, è anche lui disaster artist, stella ingabbiata nel sex symbol, autore cineletterario implausibile, mai sbocciato. Il regista tematizza anche la sua impossibilità di farsi prendere sul serio. Ed ecco che trova senso la torsione finale in cui, fischiato e deriso all’anteprima, Tommy esegue una repentina giravolta e afferma che era un film comico, che l’ha fatto apposta: i fischi diventano applausi. A ben vedere la storicizzazione del film era già postulata nell’incipit, dove volti e voci raccontano il suo statuto di cult nei cinema di mezzanotte: dietro c’era un piano preciso, viene rivisto ancora oggi, è più famoso di chi ha vinto l’Oscar e così via, tra capriole interpretative e rivalutazione trash del pubblico. Franco si accosta apertamente a Wiseau nello split screen finale, che affianca il vero The Room alle scene rigirate dal regista. Ma attenzione: Franco si dissocia, in un particolare essenziale, tenendo la battuta I did noooot per un tempo maggiore dell’originale, un secondo in più, e così dice che vuole essere diverso da lui. Vuole il successo non per un fallimento. Dopo i titoli di coda, nella riscrittura della sequenza post-credits marveliana (Tommy come supereroe del disastro), Franco incontra Wiseau su una terrazza e ci parla, si specchia in lui come un ritratto di Dorian Gray, in un riflesso definitivo per celebrarlo ma anche esorcizzarlo. Forse, allora, per Franco il film non è la cronaca di una sconfitta né la sua trasformazione in vittoria, bensì l’ammissione di un’ambizione: diventare autore noto, come Wiseau ma per altra via, trionfare senza mediocrità. Se non riesce può sempre dire che era voluto, che il ridicolo era volontario: d’altronde il bruttissimo è anche cult, nel disastro c’è spesso l’artista.