TRAMA
Mary Surratt è accusata di aver partecipato al complotto per l’assassinio di Lincoln. La difende in tribunale un reduce di guerra nordista.
RECENSIONI
Redford, il vecchio leone, non si arrende e ripropone la sua idea vagamente rètro di cinema politico e divulgativo, didattico e dimostrativo narrando la storia vera di Fredrick Aiken (James McAvoy) che difese in giudizio Mary Surratt (Robin Wright): torna dalla guerra di secessione il protagonista e, smessi gli abiti militari, riveste quelli di avvocato in un Paese che cerca di ripartire dopo il sanguinoso conflitto civile che lo ha dilaniato; paradosso vuole che proprio lui, che è stato eroe di guerra nordista, si trovi a dover difendere una madre di famiglia sudista accusata di aver avallato, ospitandone gli ispiratori nella sua pensione, la cospirazione che ha condotto all'uccisione di Lincoln, complotto che ha il figlio di lei, fuggiasco, quale sospetto partecipe. E' un dilemma etico quello che si propone al giovane procuratore, tanto più tormentato quanto più riflesso sulle conseguenze del processo: l'assoluzione della donna suonerebbe, all'opinione pubblica, come il tradimento di un eroe; la sua condanna come l'ambigua accettazione del patrocinio di una causa persa da parte di un avvocato di comprovata fede nordista. Fred vi rinuncerebbe se non venisse convinto dal suo mentore, il senatore Reverdy Johnson (Tom Wilkinson), integerrimo interprete dello spirito della Legge, che fida proprio sulla fulgida condotta bellica del protagonista quale inattaccabile dimostrazione della doverosa, scrupolosa difesa da assicurare all'imputata.
Fred comprende subito la contraddizione alla base di un processo militare a carico di civili e, convintosi dell'innocenza della donna - ai suoi occhi testimone ininfluente del complotto -, cerca in tutti i modi di salvarla opponendosi alle resistenze tattiche dell'establishment, ma persino a quelle della sua stessa cliente, impegnata autolesionisticamente a salvaguardare l'incolumità di un figlio che lascerà che ella venga sacrificata al suo posto.
Redford, come nel precedente Leoni per agnelli, costruisce il film come un teorema verbale volto a dimostrare, in questo caso, la necessità del garantismo, del rispetto delle regole, dell'esigenza di appellarsi sempre e comunque al diritto, sconfiggendo le oscurantiste paure congiunturali, qui impersonate dal Ministro della Guerra Edwin Stanton (Kevin Kline), in cerca di una soluzione plateale, anche ingiusta, per pacificare gli animi di una nazione inquieta.
Diversamente da quanto fa pensare il titolo, il personaggio che sembra interessare Redford non è tanto l'imputata, dunque, quanto chi la difese, perché a essere davvero in discussione in The conspirator non è il merito del processo in questione, ma il principio della legalità di cui Aiken si fa paladino: l'accorato appello alla Costituzione, che il giovane avvocato reitera, suona, quindi, come un doveroso richiamo alla ragione in una vicenda processuale inevitabilmente deformata dalla situazione storica e inquinata da inquietanti interventi manipolatori, stanti gli insopprimibili risvolti politici legati al verdetto finale («I nostri padri fondatori hanno stilato una Costituzione espressamente per momenti come questo» afferma Johnson - tanto per essere chiari -).
Il drammatico dibattimento in aula, i confronti tra avvocato e cliente, i dialoghi pubblici e privati sono dunque tutti imperniati sulla necessità di mettere in luce da un lato la spietatezza di un tempo bellico in cui la legge tace e dall'altro i tentativi strenui del giovane per farne risuonare la voce. Giocando su un controluce metaforico, in cui i personaggi, nei momenti topici, si stagliano come irriconoscibili figure paradigmatiche (l'effettata fotografia è di Newton Thomas Sigel), The conspirator non si limita a proporre le classiche dinamiche del film processuale, per esporre una puntuale ricostruzione dei fatti, ma problematizza la vicenda mettendone in luce le intime contraddizioni e i punti oscuri.
Spezzando le geometrie oppressive del precedente lavoro e proponendosi come operazione esteticamente più ardita (l'uso della macchina a mano nelle sequenze processuali, gli inusuali punti di ripresa dal basso, il montaggio alternato del concitato incipit), il film è ammirevole nel suo svuotarsi da ogni facile sentimentalismo, nel suo piegare l'aneddotica alle necessità drammatiche e critico-storiche, nel rigoroso e didascalico attenersi all'obiettivo della resa sostanziale dei nodi morali, meticoloso nella ricostruzione d'epoca, monolitico nel suo empirismo quasi rosselliniano: Redford, come in un film anni 70 [1], non impartisce scolasticamente una lezione di storia, ma tende piuttosto a rovesciare il segno della narrazione di una vicenda che gli statunitensi comunemente conoscono - o credono di conoscere - per mostrarne lo spinoso risvolto.
Due ore di solido, classico, civilissimo cinema americano - scritto con vezzosa pedanteria e magnificamente interpretato - la cui visione non farebbe male alle scolaresche italiane, in tempi in cui la certezza del diritto viene messa in discussione un giorno sì e l'altro pure.
[1] La didascalia finale ci segnala come Aiken, chiusosi il processo, abbandonò l'attività forense per diventare giornalista del nascente Washington Post, il quotidiano che, nel secolo successivo, grazie all'inchiesta sul caso Watergate di Bob Woodward e Carl Bernstein, decretò la fine della presidenza di Nixon. Il riferimento tacito a quella vicenda e a uno dei più celebri film americani degli anni 70 (Tutti gli uomini del Presidente di Pakula), di cui Redford fu protagonista, chiude, mi pare, un ideale cerchio.
La nuova piega retorica, politica e moralista del Redford regista (vedi Leoni per Agnelli), instillata in fatti “storici” del proprio paese, convince poco, anche perché si affida a sceneggiature risapute in temi e meccanismi drammaturgici per renderli esemplari (per quanto questa, di Jame D. Solomon, riproduca anche i dialoghi originali nei verbali del processo). L’opera costituisce il debutto produttivo dell’American Film Company, dedita all’accurata ricostruzione di importanti passi del passato americano e, senz’altro, il racconto di tale pagina indecorosa non lascia indifferenti: dimostra anche che, in tutti i campi (artistici e non), poco è cambiato da Il Buio oltre la Siepe a questa parte (volutamente, gli autori si rivolgono agli Stati Uniti del presente, ancora divisi fra rispetto della Costituzione e scorciatoie prese dal potere). Convince poco anche a livello figurativo: la fotografia di Newton Thomas Siegel, nel tentativo di ricreare le istantanee color seppia dell’epoca, ottiene un effetto artificioso con una luminosità che “denuda” tutto, comprese le location naturali, rimodellate per sembrare del periodo. Redford, però, è sempre benedetto dal suo tocco magico con gli interpreti: particolarmente efficaci le prove (e i personaggi) di Tom Wilkinson (il senatore Johnson) e di Robin Wright (la cospiratrice). Tutto il resto segue schemi troppo collaudati perché lascino spazio a qualche sorpresa, se non nel finale non lieto, scritto però dalla Storia.