Horror, Recensione

THE CONJURING – IL CASO ENFIELD

TRAMA

I coniugi Warren giungono ad Enfield per indagare sui presunti fenomeni paranormali che stanno tormentando la famiglia Hogdson. Nel frattempo una strana entità vestita da suora entra in contatto con Lorraine.

RECENSIONI

James Wan è un gran mattacchione.Pensiamo solo al primo incontro con la suora malefica. Lorraine alza un lenzuolo e si trova di fronte una specchiera. Un leggero zoom sulla superficie riflettente introduce l'apparizione di un'ombra che lentamente prende posto dietro le sue spalle. La Signora Warren non può far altro che voltarsi e constatare che la minaccia non è manifesta. In un gioco di panoramiche a schiaffo la macchina da presa accompagna il ripetuto voltarsi della protagonista dalla specchiera alla stanza, mettendo continuamente una delle due porzioni fuoricampo:  la tensione cresce grazie alla sua intrinseca prevedibilità, al disvelamento del meccanismo di paura, che prevede che la creatura si avvicini sempre di più fino a un faccia a faccia tanto inquietante quanto scontato.
Per capire il modo in cui Wan si confronta col genere, questa sequenza è fondamentale e fa da apripista a tutta la riflessione sul suo cinema che seguirà.E' assai palese come l'approccio del regista esasperi l'illusorietà dell'horror e ne scopra incessantemente le carte, secondo un'attitudine ludica che mostra al pubblico i suoi trucchi, il suo umore finzionale, fatto di memorie, situazioni-tipo ed estremamente familiari, atmosfere dal sapore rétro, quasi si trattasse di un ritorno alle origini, a un senso artigianale e curioso à la Melies.Mettiamola così, per James Wan l'orrore è semplicemente un gioco, un magico zootropio generatore di mostri, la baldanza di un divertimento virtuoso. Un divertimento però che mette in scena i suoi artifizi, dialogando incessantemente con lo spettatore. Questi si ritrova in una condizione limite: approcciare una visione in cui immergersi totalmente è quanto mai proibitivo, perché il punto della questione non è il giocattolo, ma l'attività di anticipare e decodificarne le istruzioni.

Già Gianluca Pelleschi nel suo pezzo su Insidious diagnosticava bene il “lavoro attentivo” a cui era sottoposto lo sguardo nello scoprire l’immanente pericolo, solo in apparenza invisibile. The Conjuring – Il Caso Enfield porta avanti proprio questo modo di canalizzare l’attenzione del pubblico su un profilmico letteralmente invaso da elementi scenografici e porzioni di oscurità che contengono il proliferare di presenze. E’ soprattutto l’allestimento della scena a stuzzicare lo spettatore manipolato. Wan beffardo, è sempre pronto a disseminare elementi che obbligano l’occhio a rimanere vigile e a sondare potenziali generatori di spavento: oggetti parzialmente coperti da tendaggi (attaccapanni, mobili, etc), finestre e aperture varie dislocate in un sapiente uso dello spazio, sono soluzioni che ci chiedono di non allentare mai la tensione. Ed è proprio in questa perenne tensione che il virtuosismo di carrelli, panoramiche e movimenti in steady riesce a creare la giusta compenetrazione tra ciò che è inquadrato e ciò che non lo è. Il fuoricampo però è quanto di più fallace ci sia, perché non è lì che si nasconde il Male, essendo questo dentro l’immagine. Non è altro che un modo per depistarci e tenerci sulle corde: se da una parte siamo consci che la manifestazione giungerà da quanto abbiamo di fronte a noi, dall’altra l’oscillazione della macchina da presa che sterza tra le porte, si volta per esplorare altri spazi, non può rassicurarci. Ci preoccupiamo fin troppo per quello che non vediamo, quando, in realtà, è tutto davanti a noi. Basta saper aspettare.

Siamo manipolati, tocca accettarlo. E’ quello che vuole il nostro regista-illusionista.Già in Saw il mind-game pianificato dall’assassino funzionava come allestimento-trappola, per non parlare del film che più di tutti ha messo le radici di questa attitudine, Death Silence. Mary Shaw, uno spietato ventriloquo, si esibiva in spettacoli per ammaliare la platea per poi vendicarsi di chi ne criticava le prestazioni.In fin dei conti la ventriloquia è l’arte per eccellenza del demone (e del regista) che usa le sue vittime e si pone dietro di esse pilotandone la volontà. Tutta la filmografia di James Wan, infatti, poggia su questo assunto che, nel modo in cui viene messo in scena, richiama nuovamente l’artificio del trucco, portato ancor di più agli estremi nell’inquadratura tipica della presenza che si affaccia lentamente da dietro i malcapitati.
The Conjuring – Il Caso Enfield si diverte proprio a moltiplicare, in un gioco di scatole cinesi, l’effetto marionetta. C’è una bambina succube di un fantasma che è a sua volta succube di qualcosa ancora più terribile, secondo un abisso di possessioni recitative.Così il cinema di James Wan è una rappresentazione a incastro tra piani che dialogano e si sovrappongono, tra realtà e OBE (Out-of-Body Experience), tra passato, presente e futuro (coazioni a ripetere), tra linee narrative (il privato dei Warren e quello degli Hodgson), insomma, un proliferare di soglie che necessariamente ripropongono  l’eterna ambivalenza tra reale e immaginario.

Secondo capitolo di una saga che trae spunto dalle ricerche paranormali condotte dai coniugi Warren, The Conjuring – Il Caso Enfield, già dal titolo, richiama liberamente i fenomeni di poltergeist che colpirono la piccola cittadina a nord di Londra. Da Amtyville si passa quindi all’Inghilterra. Siamo alla fine degli anni settanta e già questa scelta permette al regista di sbizzarrirsi nel riproporre un contesto iconografico pieno di riferimenti d’epoca, in particolare nel décor.Un po’ come Del Toro, pur trattandosi di un cinema completamente diverso, anche Wan ama alla follia la fisicità materica della messa in scena, il rievocare il lato propriamente più tangibile, a suo modo vintage, del passato. E’ sicuramente un richiamo all’horror più classico che, pur con il passare degli anni, mantiene un’aura sacra e fondativa. Non stupisce allora il divertimento dell’autore nel rendere gli anni settanta più settanta che si può, calandoci in un’ambientazione coerente, con un che della magia di un tempo che fu.Rispetto al film precedente l’immaginario è quanto di più definito, le regole ormai sono conosciute grazie anche al ruolo che Insidious ha avuto nel delineare certi specifici funzionamenti. Se The Conjuring esponeva il lato oscuro della manifestazione passo dopo passo, qui siamo già pronti e ci ricolleghiamo fin dal principio a un mondo altro che si cela dietro il velo della realtà: uno spazio onirico, astrale, in cui esploriamo le quinte del paranormale (Lynch è fondante, come sempre).Il tutto è inevitabilmente sostenuto da quell’attitudine dei ricercatori dell’invisibile che, proprio per comprendere e captare l’altro, hanno da sempre utilizzato una strumentazione ad hoc. Nel cercare il male si fa cinema, vuoi con un magnetofono, vuoi con delle macchine fotografiche, vuoi con una telecamera. E’ quindi chiara la strizzatina d’occhio nell’incipit che vede un tecnico allestire un set nella nuova casa esplorata dai Warren. Come già accennato prima, il sentire meta- di James Wan è indiscutibile, è un continuo calarsi da ambientazione ad ambientazione nell’attesa che fuoriesca il colpo di teatro del momento.

Richiamando a chiare lettere L’esorcista di Friedkin, quel genio che riuscì per primo (?) a far irrompere il diavolo con flash subliminali (il volto del Maligno che appare a Reagan si può sovrapporre a quello di Valax), The Conjuring – Il Caso Enfield ritrae un dolente dramma psicologico che colpisce una famiglia. Tutto questo, però, restando anni luce dalla viscerale negatività, quasi archetipica, che caratterizzò il capolavoro del 1973, perché l’anima dell’opera è pur sempre alimentata da quel luna park visivo e spettacolare forse più vicino al genere degli anni ottanta.
Gli omaggi al passato come consuetudine sono molteplici (Poltergeist, Omen, Nightmare  - Nuovo Incubo), ma a colpire è il risvolto intimo e psicologico della vicenda trattata.
Potremmo usare quella parola così abusata dalla critica contemporanea: umanesimo.Sì, il cinema di James Wan, pur autoalimentandosi di sberleffi e finzioni, pur dialogando con lo spettatore in un’analisi di se stesso, riesce a far emergere un lato vivo, profondo, umano nei suoi personaggi. L’esibizione divertita è tutt’altro che un freddo teorema o una distaccata giostra, anzi mostra a suo modo anche il proprio limite. Basta pensare come i coniugi Warren, rassegnati al fatto che tutti i fenomeni di Enfield siano nient’altro che una farsa degli Hogdson, tornano sui propri passi. E’ un atto di fede, che riesce a guardare oltre la stessa finzione (le riprese della scenata in cucina), e si riconnette a quel legame emotivo tra le persone, più forte di qualsiasi rituale.
Prendete la sequenza di Ed che canta Can’t Help Falling in Love di Presley. E’ così toccante per per la sua imprevidibilità racchiude un senso di umanità, una ricerca di calore, che rende la poetica dell’autore tutt’altro che uno sterile esercizio di stile. Non potevamo chiedere  niente di più contemporaneo e classico allo stesso tempo. W James Wan.

A proposito: il demone Valak è interpretato da Bonnie Aarons, la stessa attrice che ha causato più di un infarto sbucando da dietro il Winkies in Mulholland Drive. Chiamatele pure coincidenze.