TRAMA
Sfuggito a un killer che ha causato la morte della sua compagna, Jason Bourne si ritrova al centro di un intrigo internazionale di cui regge le fila un magnate russo.
RECENSIONI
Schegge da incubo funestano le notti dell’ex enfant prodige della CIA, costretto a lasciare l’ambrata calma del suo rifugio indiano per affrontare non la vendetta, ma il suo risvolto più intimo e crudele, l’espiazione. Nerovestito e invulnerabile, Bourne attraversa un’Europa dalle tinte algide inseguendo una scena primaria sepolta nell’interessato silenzio dei dossier ufficiali: scopo della missione non è un perdono (mai richiesto) da strappare ma una rinnovata consapevolezza da indurre e da acquisire. Lungo tutto il film, la supremazia del protagonista è soltanto nel titolo e nell’abilità con cui anticipa e neutralizza gli avversari: nel finale (propedeutico a un terzo e più che probabile capitolo), il killer è finalmente pronto a sparire (provvisoriamente) a favore di un uomo la cui identità, costantemente sequestrata e sistematicamente contraffatta, è tutta da (ri)costruire.
A due anni e svariati milioni di dollari d’incassi da THE BOURNE IDENTITY arriva l’adattamento del secondo deiBourne novels usciti dalla penna di Robert Ludlum: confermati l’attore principale e alcuni membri del cast, la regia passa da Doug Liman (ora solo alla produzione) a Paul Greengrass. L’impianto non cambia rispetto al primo episodio: trama assemblata all’unico scopo di consentire una serie di scontri e inseguimenti a vario tasso di spettacolarità, dialoghi secchi e sufficientemente autoironici, caratteri monodimensionali ma non per questo del tutto risaputi. A mutare radicalmente è il tono: alla spy story tinta di giallorosa si sostituisce un racconto ostentatamente cupo, spinto fino a echi shakespeariani (Bourne, che ha ucciso il sonno, pulisce con furia le mani insanguinate), percorso da una vena nevrotica (fin troppo) sottolineata dall’indefessa macchina a mano (già regina nel più celebrato film del regista, BLOODY SUNDAY). È proprio sul versante tragico/introspettivo che THE BOURNE SUPREMACY mostra le falle più evidenti, disegnando con paludata maniera le smanie di un (anti)eroe perseguitato dal ricordo (e dalla sua assenza): flou notturni, sgranature, foto incenerite, taccuini lacunosi affollano lo schermo ma non trovano invenzioni visive degne di nota, facendo rimpiangere non solo opere ben più risolte sul tema della memoria in affanno (un titolo per tutti: MEMENTO) ma l’inquieta agilità dell’indagine con cui si apriva THE BOURNE IDENTITY. Se l’intimo tormento di Bourne non ottiene che una ricognizione d’elegante piattezza (fa eccezione l’addio subacqueo a Marie), l’azione del killer ispira le invenzioni migliori, dallo scontro domestico (gli antagonisti come sagome in controluce) al denso meeting berlinese, alla torrenziale, lambiccata, sfavillante scorribanda per le strade di Mosca, al cui termine Jason torna a vedere la luce che si era estinta alla morte dell’amata: è in simili momenti che la frenetica malinconia di Bourne trionfa sugli schematici rovelli imposti dallo script, permettendo al film di essere qualcosa di più che un lussuoso contenitore di buone prove recitative.