- Commedia
- Drammatico
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TRAMA
Kumail, comico di origini pakistane, ed Emily, studentessa del North Carolina, si innamorano, ma la loro relazione è messa alla prova, prima dal conflitto culturale che si accende tra i due (musulmano lui, WASP lei), poi da una misteriosa malattia che colpisce Emily all’improvviso.
RECENSIONI
Una successione tremebonda, una rincorsa convulsa, è ciò che anima i caratteri sintomatici dell’amore hollywoodiano dopo i crolli che ne hanno ridefinito l’immaginario: ce lo dicono i titoli di testa della serie Netflix Love, prodotta e creata da Judd Apatow insieme a Lesley Arfin e Paul Rust, che fanno e disfanno il catalogo degli emblemi di quel sentimento – pensato letteralmente fino alla nausea in Apatow – che ha “fregato”, “fottuto” i suoi protagonisti, rappresentando l’andamento di un genere, quello della commedia romantica, che ha sempre più a che vedere con un trepidante e spasmodico atto di rifondazione, con uno sguardo che, a partire dalla messa in crisi di corpi e figure (in Apatow, quelli di una generazione sradicata tra bulimia e nostalgia, redenzione e umiliazione, fra i Kids e i Goonies, la camera da letto e lo scantinato), questiona sulla tenuta delle immagini del coniugale che ricerca spasmodicamente.
Se il «crollo», come scrive Marco Belpoliti, riconduce «alla “realtà reale”, facendoci comprendere che la realtà artefatta, in cui viviamo, costruita artificialmente, ha bisogno di una verifica, di qualcosa di consistente» [1], in The Big Sick, prodotto da Apatow, diretto da Michael Showalter, scritto a quattro mani da Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani e presentato al Sundance nel 2017, commedia romantica che racconta la vera unione tra la Gordon e lo stand-up comedian Nanjiani (nel film interpretati rispettivamente da Zoe Kazan e da Nanjiani stesso), all’improvviso venire meno del corpo della ragazza, resiste lo sguardo diretto a mettere in immagine la coppia, a “strapparla” dalla degenza nel fuori campo. Emily, infatti, a causa di una grave infezione, “scompare” in un coma farmacologico, dopo aver aperto la scatola pandoriana di Kumail contenente le foto delle pretendenti pakistane che, per assecondare la tradizione e il volere familiari, egli ha continuato a incontrare. “Vedi l’umano e poi muori”, sembra dire per mezzo di parafrasi la serie CBS I’m Dying Up Here, che ha per protagonisti altri stand-up comedians e si apre con il congedo volontario dall’esistenza di uno di loro nella Los Angeles dei ’70; lo vedi – suggeriscono i toni più rosei di questa narrazione per immagini – e ti si guasta il cuore. La questione riguarda in ogni caso la visione ovvero, nel caso della commedia, lo scarto tra l’essere insieme e il vedersi insieme.
Kumail si riscatterà agli occhi della ragazza? O sceglierà di assecondare la visione della propria famiglia continuando a fingere di essere un buon pakistano, un buon musulmano, un bravo figliolo? Ri-conquistare Emily significa così svolgere un groviglio identitario e culturale in sintonia con la poetica di un regista (Hello, My Name Is Doris, 2015) interessato a personaggi sovrastati da retaggi personali e culturali, alla rappresentazione dei loro tentativi maldestri di presentare un sentimento autentico al mondo. Soprattutto, comporta per questa commedia godere della perdita, “whoo-hooare”, secondo il gergo del film, il crollo di certi apparati e appellativi individuali, anche ricorrendo calcolatamente alla macchietta e al cliché (la famiglia pakistana, l’aggressione white trash contro Kumail durante la sua esibizione) per dichiarare apertamente la portata ferace del sentimento. Anche a rischio di confezionare la propria comicità e di rimpolpare il plot con tracce scollate e ridondanti (la crisi coniugale dei genitori di Emily). Di stendere un compitino che forse ci lascia un po’ inerti di fronte alla sorte della coppia.
[1] M. Belpoliti, Crolli, Einaudi, 2005, p. 98.