TRAMA
Ambientato a New York, “The Beliver” segue la vita di un giovane studente ebreo, confuso e combattuto tra i suoi ideali e la sua discendenza, per capire il reale significato del giudaismo nella sua vita.
RECENSIONI
Le contraddizioni dell'uomo portate alle estreme conseguenze. Danny Balint è un ragazzo ebreo che cresce in completa scissione tra la fede religiosa e la sua condanna. Entrambe le parti sono a tutto tondo e non accettano l'interferenza di sfumature. Molto ardua quindi la possibilità di raggiungere un punto di equilibrio. I conflitti interiori hanno accompagnato il cinema fin dalla sua origine, basta pensare allo sdoppiamento del mitico Dottor Jekyll in Mr. Hyde o, per arrivare a tempi più recenti, alla bellissima Kathleen Turner in "China Blue", integerrima donna d'affari di giorno e prostituta estrema di notte. A differenza di questi esempi, in "The believer" la scissione del protagonista prevede la continua convivenza delle due opposte personalità. Il nazista e l'ebreo non si esprimono quindi separatemente e all'insaputa l'uno dell'altro, ma lottano incessantemente tra di loro. Non è dato allo spettatore sapere cosa ha portato il giovane Danny Balint a un odio così convinto nei confronti degli ebrei e il film, dopo un inizio che lascia sperare in un'analisi sulla difficile convivenza con una fede religiosa (o di pensiero), si sviluppa seguendo i binari standard del conflitto interiore senza vie d'uscita. Anche l'antisemitismo, quindi, diventa solo uno spunto, interessante per le problematiche che pone, ma mai risolutivo nelle conseguenze narrative. Nonostante un taglio visivo da cinema-verità (le solite sgranature, una luce naturale, la m.d.p. spesso a mano) il coinvolgimento è quasi sempre limitato, come se le cose accadessero attraverso un filtro in grado di renderle distanti. Forse è proprio la combinazione tra un tema interessante e sempre attuale e un trattamento alla "personaggio disturbato" a non funzionare più di tanto, ad impedire che i deliri del protagonista arrivino a scuotere le coscienze, a porre domande e a cercare risposte. La visione offre molti spunti, il protagonista Ryan Gosling e' assai convicente, ma la visceralità del suo conflitto è sempre subordinata ad una verbosità più incline al "talk-show" che alla denuncia.
Antisemitismo complicato dal fatto che colui che se ne fa assertore è giovane ebreo, esperto di testi sacri, colto e intelligente è il tema scottante sul piatto di THE BELIEVER, vincitore del Sundance festival 2001. Una critica efferata dall'interno, per così dire, un attacco al cuore di una cultura e di una religione perpetrato da un suo fine conoscitore e non dal solito rozzo naziskin tutto slogan e fanatismo. Ma il cordone ombelicale che lo lega al suo ambiente Daniel non riesce proprio a reciderlo e questo porterà la vicenda a complicarsi fino al drammatico finale. Il regista (e sceneggiatore) riesce a ben tratteggiare la figura del protagonista ma non va al di là di questo: si punta tutto sull'ambigua scelta di posizione del giovane, su flashback troppo reiterati (Daniel bambino che contesta il maestro e mette in dubbio i dogmi), su alcune figure di contorno del tutto superflue (Billy Zane, ideologo fascista da romanzo d'appendice e la più scialba Theresa Russell che il cinema ricordi), si sparano due o tre aforismi nazi ad effetto ("il mondo moderno è una malattia ebraica", "se Hitler non fosse esistito, gli Ebrei lo avrebbero inventato"), si infarcisce tutto con il cupo folclore dei gruppi di ultradestra. Tematica impegnativa, chi lo nega, prospettiva indubbiamente inedita, ma oltre a questo? Facile essere seri, difficile fare del cinema serio, quello è tutt'altro paio di maniche. Basta un tema scioccante a fare un film scioccante? Ne abbiamo viste troppe per farci impressionare dalla materia trattata e se la vicenda ha davvero dello sconvolgente, nulla di sconvolgente ha questo film: immagini tirate via ad arte, sciatterie studiate e molto molto à la page, volontà (un po' morbosa quando non astuta) di disorientare il pubblico. Come? Nel modo più prevedibile; dato il tema, lo sviluppo è quasi paradigmatico: situazioni limite e un bel po' di facilonerie a far da contorno al consueto percorso rabbia violenza crisi (e le sequenze allucinatorie in cui Daniel dapprima si vede soldato nazista che infilza il bambino ebreo dinnanzi al padre e poi diventa quel padre che guarda il figlio conficcato alla baionetta sono tra le cose più brutte che abbia visto negli ultimi tempi), conflitti risolti con un sacrificio catartico (e che elimina non solo Daniel ma anche il problema di un finale che poteva suonare ambiguo e scomodo ... Alla faccia del coraggio...). Dubbio che puzza di certezza: e se quella degli indies americani fosse diventata una strada non meno ingessata e codificata di quella delle major? Cambiano gli elementi (rectius: i cliché), non la logica che li governa: in questo caso tematiche scottanti, realismo o semidocumentarismo, provocazione un po' stantia... Se prima si faceva del cinema davvero indipendente e originale (Tarantino, il primo Raimi, Hartley, Solondz etc.) ora si fa cinema-che-si-dichiara-indipendente- per- vincere-al-Sundance. Allegria... La lezione dei veri maverick, degli Altman, Cassavetes, Romero, Lynch e compagnia girando sembra non insegnare niente a nessuno. Il film è quello che si proietta in sala non quello di cui si chiacchiera nei foyer. Cosa me ne faccio di THE BELIEVER? Cosa ne resta dopo il dibattito?
L’intelletto, una marcata sensibilità e l’abilità dialettica possono mascherare la verità a noi stessi e agli altri, sposare la negazione di ciò che amiamo trasportandoci, in un moto romantico, verso la distruzione di ciò che siamo impossibilitati a nutrire. L’odio è ingiustificato ma ha radici ben visibili: l’esordiente Bean (sceneggiatore di Affari Sporchi e Nemico Pubblico) le passa in rassegna in modo provocatorio, rendendole al contempo pericolosamente condivisibili e palesemente assurde. Il “Nulla senza fine” contestato dal suo protagonista (l’ottimo Gosling, gemello dell’Edward Norton di American History X) è quello di un vuoto esistenziale dato dall’astrazione dal contesto che, facilitato dalla paura e la sottomissione, arriva a deificare l’immaterialità degli scambi e il denaro. Tesi: il popolo eletto, senza terra, sradica le genti e le culture con cui viene a contatto e colonizza il modus vivendi occidentale. D'altra parte, l’antisemitismo è un facile strumento per unire nell’odio. L’apologo morale di Bean, però, non tocca solo la questione semita, disquisisce sul Male tout-court, nega che sia un'entità a se stante, in quanto tenebra in assenza di luce, angelo caduto, Lucifero cullato nel Bene, sofferenza sepolta, voce amica e disperata, superba, emarginata, incattivita. La sua riflessione consuma gli ultimi stereotipi sedimentati nella coscienza collettiva, guarda dal di dentro con un espediente paradossale ma emblematico (un ebreo tramutato in perfetto naziskin), ha la sfrontatezza di sgretolare il tabù che ha rimosso il fenomeno dell’odio di razza con la comoda e sterile stigmatizzazione del movimento nazista, cerca l’incontro fra vittime e carnefici, mostra la contraddittorietà del rinnegato in cerca di consenso. Le seducenti argomentazioni di Danny mostrano la corda nel momento in cui cercano la via di fuga nella violenza, tallone d’Achille delle ideologie malsane. Bean accompagna il suo protagonista verso l’espiazione, ma ne registra anche il percorso stoltamente coerente: è un uomo che rifiuta il compromesso e pone domande che, in assenza di risposte assolute, converte in pugni chiusi. Per assurdo, arriva ad incarnare ciò che più odia nella sua razza: il settarismo, il vittimismo, l’intransigenza, la superbia, l’ipocrisia della dicotomizzazione (carne/spirito) che sfocia nella contaminazione. Il Credente Addolorato incarna il percorso umano che, agnostico, "deve" percorrere la Scala al Paradiso, a rischio di trovarlo vuoto. Già in Storia di un Soldato c’era una figura inedita per il pamphlet antirazzista, quella di un uomo di colore che odia ciò che i bianchi odiano della sua stessa razza.