TRAMA
Una giornalista ha le prove di un insabbiamento governativo: le riprese della cittadina di Chesapeake Bay nel 2009, quando le acque contaminate diedero vita a organismi che mangiarono dall’interno gli abitanti.
RECENSIONI
Fosse uscito in tempi non sospetti, anziché arrivare fra gli ultimi nella moda del “found footage” (produce l’Oren Peli di Paranormal Activity), si potrebbe chiudere un occhio su qualche ingenuità, sul presunto e malfermo realismo, su di un racconto che, nonostante sia sbriciolato dall’eterogeneità delle sue fonti, ha vesti oltremodo scontate. Nell’offerta copiosa di questo sottogenere, invece, è un’inutile goccia nel mare, peraltro nemmeno spaventosa. Ciò che lascia perplessi è la firma di Barry Levinson, anche produttore e soggettista “ecologista”, che s’è ispirato al vero inquinamento della Baia di Chesapeake: per quanto si sia spesso prestato a lavori su commissione, tipicamente hollywoodiani e di genere, il suo cinema ha sempre posseduto un respiro “classico”, centrato su interpretazioni e drammaturgie tradizionali. Stupisce vederlo alle prese con il suo primo horror, ridotto a giocattolo estetico, modaiolo e giovanilistico, in cui tutto è risaputo: le evoluzioni del racconto con sguardi presi a prestito da più tracce video (telecamere ‘private’, di sicurezza, delle auto di polizia o di un reportage); il crescendo della tensione vicina alla soluzione del mistero; il tema del governo che insabbia e mette in quarantena; i caratteri che minimizzano e faranno una brutta fine. La forma ha anche l’inconveniente di non dare mai un volto esauriente e appassionante ai personaggi (involontariamente antipatici, raramente “veri”) e il tutto è una sorta di Piranha senza il gusto dello splatter perché, aggravante non da poco, l’orrore è sempre off.